8 maggio 2018

SALONE E FUORI SALONE: UN LUNGA RIFLESSIONE

Agli altri resta il ricordo di una bella giornata e a noi?


Fenomeni come il recente Fuorisalone rispecchiano ciò che Milano sta diventando od ha l’aspirazione di diventare. Una città smart, veloce, attenta alle tendenze, sempre più in cerca di ubiquità. Si cavalca la tendenza, il tutto e subito, in qualsiasi luogo possibile, al massimo grado ottenibile. Il tessuto economico gode degli sforzi sinergici fra sfera pubblica e privata, fra apparato sociale ed industriale, nell’ordine di una massima interoperabilità fra i principali settori della vita e dell’economia, massima comunicazione fra interno ed esterno.

06soddu17FBSolo parole o anche fatti? I numeri di questo Fuorisalone sembrano ventilare la seconda ipotesi. Milano rappresenta un hub attivissimo per settori in cerca di vetrina: moda, musica, design, architettura a trainare. La città si colora di miriadi di eventi, in ogni parte dell’anno possiamo assistere al risultato di tale sinergia: associazioni di categoria costellano le nostre vie e il nostro ordine del giorno di iniziative open source, installazioni, showroom.

Mettendo a rilievo la portata di tali eventi, non stiamo che assistendo all’epifania del cosiddetto nuovo triangolo industriale Milano-Padova-Bologna: industrie dell’acciaio, delle materie plastiche, della meccanica strumentale e della gomma che girano a pieni motori, trascinando con sé tutto ciò a cui il disegno industriale pertiene. Insomma il cuore dell’Italia che produce, che esporta e che fattura all’estero. Una salutare boccata di ossigeno, nella contingenza di un agghiacciante calo nei consumi domestici. Tali eventi non fanno che apporre il punto esclamativo su di un processo già rodato, capace di muovere una chiffre d’affair che vale 40 miliardi di euro l’anno.

Le grandi esposizioni stanno cambiando le modalità di offrirsi al pubblico, così la loro fisionomia. Prendendo distanza dallo spazio fieristico tradizionalmente inteso, si avvicinano sempre più al cuore pulsante delle persone, evolvendosi verso la partecipazione. Significativo il fatto che Stati Uniti e Sudafrica abbiano pressato gli organizzatori del Salone per ripetersi oltre i confini nostrani.

L’evento viene pensato e gestito come un brand, al tempo stesso si crea e si promuove, attrae consensi e visitatori, opera un flusso economico su due livelli: un primo destinato a potenziali partner commerciali o acquirenti, un secondo interagente con i più aggiornati umori della piazza, il cuore intenzionale di questo media. In questa direzione possiamo contestualizzare talks, mostre, performance e tutte le altre modalità di vero e proprio ‘consumo’ della città, inclusa la creazione di neologismi inascoltabili (mi riferisco chiaramente a food design). Un po’ come la moderna scissione sociale proposta dalle aziende di tecnologia: uno inventa una app per le biciclette e diventa miliardario, tutti gli altri vanno in bicicletta. Ecco, chi appartiene al giro del Salone ne trae guadagno; chi no, si limita a partecipare. Forse fa più notizia il Fuorisalone del Salone del mobile stesso, in fondo ogni tipologia di business è basata sul suo media pubblicitario, ed è giusto che tale ed importante traino della nostra economia abbia il suo. Ma noi cosa stiamo diventando?

Destreggiandosi fra i venti di un cambiamento autoindotto, Milano si abbellisce meglio che può per tali e importanti ventilazioni economiche; la metropoli viene rinnovata ogni settimana, ripensata, riconiugata a nuove esigenze di ‘sensorialità’, dunque improntata al gusto estetico della psicologia finanziatrice di turno; un open space con strade e cartelli. Lontana dalle vicissitudine quotidiane, aderente agli umori dei mercati. Il matematico britannico Alfred N. Whitehead nel 1954 asserì non a torto: “L’Arte è l’imposizione di un modello all’esperienza, e il nostro godimento estetico è il riconoscimento di tale modello”. Queste città, quasi dimenticandosi siano popolate da persone, eseguite e rimodellate ‘A regola d’arte’, sono fedeli ai propri principi estetici come abbagliate da una cronica sindrome di Stoccolma: vittime ma al tempo stesso promotrici di tali scenari ideali provenienti dalle nuove mode imposte dal progresso, dimentiche di altre ‘troppo umane’ considerazioni come storia o tradizioni, soffocate e al tempo stesso sferzate dal braccio d’acciaio del guadagno e dall’innovare per forza, dal far notizia e spettacolo di sé.

E così noi siamo indotti a pensare la nostra città in queste modalità consumistiche. Le nascite di nuovi palazzi e nuovi spazi sono ormai all’ordine del giorno: è possibile ormai ricondurre tali fenomeni sparpagliati ad un unico senso di fondo?

L’arte sta sconfinando dalle sue cornici ed espande i suoi orizzonti verso altre arti. Storicamente alleata dell’architettura, in tempi moderni sta creando una diarchia con il design, trasmettendo la peculiare sua ‘cultura dell’inutile’, o meglio la cultura del ‘non strettamente utile’, al campo dell’utile: la tecnologia, il vestirsi, il nutrirsi, l’abitare. E l’economia, disciplina della scaltrezza per eccellenza, ha fiutato l’affare e si è mangiata l’arte con tutte le sue recenti ramificazioni; tutto passato in giudicato e sotto traccia grazie al totale consenso sociale di cui ormai il mondo delle finanze gode indisturbato, forte più che mai con l’informatica a suo vassallaggio. In una tale idea di progresso, oramai, ciò che è bello non dipende più dall’immaginazione, né dalle qualità proprie dell’oggetto, né dai suoi paradossi, quanto piuttosto dal consenso sociale.

Che ci piaccia o meno, programmi televisivi, eventi sportivi e di altro genere, social network, videogame e altre macchine del consenso basate sul gusto estetico e sul partecipare sono i veri centri di produzione culturale di massa del ventunesimo secolo. Quale altro media è in grado di raggiungere i loro numeri, di mettere in accordo entità sociali e politiche dai più disparati orientamenti, di modificare intere città, creare lavoro, abitudini e orientamenti personali in maniere tanto significative?

E così il dibattito politico, il Fuorisalone, gli incontri online, le relazioni sentimentali e le relazioni tutte si esauriscono con l’esaurirsi all’aver partecipato, in funzione assoluta dell’istante; massima importanza un minuto prima dell’evento, massima dimenticanza il minuto dopo, con i soliti avanzi di polemica all’italiana. Come la partita di un videogioco, non ha senso giocare una volta sola ma ha senso solo giocare continuamente; il vortice cresce e prosegue. Tendenze e modalità nuove ma già ben collaudate, destinate ad accentuare il loro effetto con l’adultizzarsi dei nativi digitali.

Per i nostri figli o fratelli minori infatti tali fenomeni non saranno solo tendenze circoscritte alla città di Milano e ai suoi eventi, ma un vero e proprio sentimento del tempo dove cultura vigente, gusto estetico e commerci si abbracceranno sinergicamente, e si confonderanno rendendo obsoleta la classica distinzione in categorie.

Sorge spontanea un’ultima considerazione: in questa esaltante rincorsa al progresso, quanta parte di questa nuova cultura di fondo viene veramente scorta da organizzatori e partecipanti? Oltre le analisi socio-economiche ed estetizzazioni varie, aggregatori come Fuorisalone od Expo sono davvero situazioni ontologicamente differenti, per esempio, da un informale incontro al bar?

Ho la netta sensazione che tali manifestazioni abbiano seguito ideologico solo nelle cucine stellate, in qualche laboratorio di interior design sui navigli o nella direzione marketing di qualche ufficio; e che in generale il problema ontologico non si ponga, perché non è commerciabile, non si mangia e non si tocca.

Ho la netta sensazione che ai più non si consegni nient’altro che il ricordo di una piacevole giornata e qualche foto scattata in compagnia; che alla nostra città non si lasci niente altro che denaro circolante nelle tasche di chi ci ha guadagnato, istituzione pubblica o privata che sia, e immensi spazi lasciati in abbandono.

Non si lascerà che l’immobile attesa di qualche altra luce della ribalta che ci faccia di nuovo sentire importanti, di un qualcosa di nuovo da cucire sulla bocca di tutti.

Mattia Soddu

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