12 marzo 2018

PER CHI SUONA LA CAMPANA DEL 4 MARZO?

Periferie, tra crisi di consenso e cambio di passo della Giunta di Beppe Sala


Dopo il voto, non sono mancate note compiaciute e consolatorie sulla tenuta del PD e della sinistra a Milano, accreditandola tout court al buon governo ambrosiano.

02ucciero10FBNon mancano ragioni a questo sentimento, ma la ridondanza di certe autoassoluzioni e la pretesa di issare il modello milanese oltre i suoi meriti, paiono eccessive e contraddittorie rispetto ai fatti. Intanto, Milano ha condiviso la contro tendenza con Roma, Torino, Bologna, Firenze, realtà metropolitane molto diverse dalle alchimie del suo laboratorio politico: se il risultato si somiglia, gioco forza ammettere che ha operato principalmente qualcosa di diverso dallo specifico merito ambrosiano. Cosa?

I collegi che hanno resistito all’onda grillo – leghista di regola sono collocati in zone centrali o semi centrali delle grandi città: man mano che ci si allontana verso le periferie il consenso si annacqua e diviene minoritario. La geografia, anzi la topografia, non inganna: esiste un nesso visibile tra voto “resistente” e prevalenza del ceto medio urbano, formato dalle professioni vecchie e nuove e dalle tecnocrazie delle grandi infrastrutture metropolitane (università, sanità, scuola, servizi). È il profilo ideal tipico dell’attuale elettore PD nelle realtà metropolitane: cultura medio alta, buon reddito, certezza di ruolo sociale, consumi di qualità. Aggiungiamo il dato generazionale: molti i baby boomers degli anni ’50 che hanno assorbito i valori della rivoluzione culturale del ’68, “pantere grigie” oggi sensibili ad un dolce riformismo.

E dunque, certe connessioni autoproclamate tra voto PD e bontà amministrativa del modello milanese non sembrano così chiaramente dimostrate. D’altra parte, e qui veniamo al punto dolente, se fosse stato determinante il buon governo di Milano, non si capisce per quale motivo le periferie gli abbiano voltato le spalle, votando centro destra e 5 stelle come nell’area metropolitana. I dati attestano la stretta relazione tra distanza dal centro, disagio sociale, debolezza del voto “resistente”. Del resto, la tendenza era già visibile nelle elezioni comunali del 2016, quando il centrodestra conquistò ben 5 Municipi su 9, ma nell’entusiasmo della vittoria il segnale è passato in cavalleria.

Nei quartieri lontani dal centro sono concentrati i ceti popolari che più hanno subito la crisi, su cui più hanno inciso i tagli della spesa sociale e delle pensioni, su cui più pesa la fatica della vita quotidiana: operai, lavoratori, pensionati, piccola borghesia, disoccupati, insomma il profilo ideal tipico dell’elettore che una volta era di sinistra e che oggi, è amaro constatarlo, è sempre più il profilo dell’elettore Lega e 5 stelle. La questione delle periferie milanesi si presenta ai nostri occhi come la nuova questione sociale e segna sulla mappa della città la crescente distanza della sinistra dal suo popolo.

Da queste veloci considerazioni ci pare che venga alla sinistra ed al governo cittadino un allarme da non sottovalutare con un invito ad interrogarsi seriamente su alcune questioni: per quali motivi il milanese delle periferie vota contro? quali le maggior criticità e le attese deluse? quali iniziative finora prese, quale impatto e quale consenso presso i destinatari? e soprattutto quale progetto per le periferie nella Milano futura?

Carlo Sangalli, che non è proprio un dinamitardo rivoluzionario, lancia l’allarme su Repubblica ed indica in una nuova governance tra amministrazione, imprese, università e terzo settore, la chiave di volta per inaugurare una nuova stagione, aggiungendo “quello che potrà fare la differenza nel suo mandato (di Sala ndr) è la ricucitura delle periferie”. Papale papale. Se perfino il leader della Confcommercio, che campa di turismo e ristorazione, non si accontenta delle sirene post expo, ma sente bene la campana delle periferie, dovremmo forse attenderci il medesimo tono da chi detiene le leve del comando politico amministrativo. E non basta compiacersi come Salvatore Veca dell’innovazione e della bellezza della Milano post Expo, per il banale motivo che questa innovazione e questa bellezza non arrivano alle periferie, dove vive la maggior parte del popolo milanese: o vogliamo dire che sono barbari insensibili alla nuova Milano?

Intendiamoci bene, qui non sono in discussione né buone intenzioni, né specifiche iniziative di questo o quell’assessore, né l’azione dei Municipi a guida PD, né i meriti che Pisapia prima e Sala dopo hanno maturato sul campo, né il valore generale dell’innovazione etico politica milanese. Piuttosto ci si domanda se vi sia una piena consapevolezza della necessità di un urgente cambio di passo nell’azione di governo cittadina, e se l’attuale agenda politico amministrativa (e le poste di bilancio) sia fasata rispetto al crescente disagio delle periferie: casa, servizi sociali, cultura, sicurezza, migranti, trasporti, sicurezza, sono i capitoli di un corposo dossier, e rimandano tutti assieme alla questione più ampia del profilo delle periferie nella Milano 2030: risorsa o problema? Suona la campana delle periferie, chiede ascolto e risposte a molti: politici, amministratori, classe dirigenti, cittadinanza.

Suona per la Giunta di Beppe Sala: fra poco sono due anni di governo, sufficienti per un serio bilancio pubblico e per l’aggiornamento del programma. Non si vive di meriti passati, il sindaco manager Beppe Sala lo direbbe per primo: EXPO è stata un successo, produce ancora effetti, ma è il passato. Quale nuova visione e quali proposte per reintegrare appieno le periferie nella Milano del prossimo decennio, prima che da “ossessione” del primo cittadino divengano “incubo” elettorale del PD e del centrosinistra?

Suona per il Partito Democratico di Milano, forse troppo auto compiaciuto della effervescente Milano post expo per accorgersi dello sfilacciamento del consenso e della sua stessa struttura organizzativa in periferia. La rifondazione del partito non può avviarsi cullandosi nella ninna nanna dell’eccellenza milanese, ma principalmente ripristinando le connessioni politiche, culturali ed organizzative con il popolo delle periferie, investendo politicamente sul loro rilancio, aggiornando la proposta politica verso la città ed il contesto metropolitano. La questione delle periferie riguarda l’essenziale della politica del PD, se lo intendiamo ancora come un partito orientato in senso democratico: eguaglianza sociale, pari opportunità, dignità civile, dovrebbero ispirare la ripresa concettuale e pratica del welfare state come quadro di riferimento dell’azione della sfera pubblica, se pur declinato anche verso i nuovi principi del welfare community.

Suona per le classi dirigenti (finanza, sistemi imprenditoriali e sindacali, università, filantropia e terzo settore), cui si chiede di comprendere e far comprendere come l’investimento nelle infrastrutture sociali (casa, mobilità, cultura, servizi) è appunto un investimento e non una spesa, e che la restituzione di una piena cittadinanza al popolo delle periferie genera preziose ricadute in termini di qualità del capitale umano, di ricchezza di relazioni, di imprenditorialità, di mobilitazione delle risorse altrimenti lasciate a sé stesse e perdute.

Suona anche per chi ancora si ostina a vagheggiare romanticamente di Navigli scoperti, fingendo di ignorare che con 500 milioni di euro si potrebbero “ribaltare” le periferie con un grande progetto di rigenerazione urbana, una riconnessione concreta e simbolica tra centro e periferia, una trasformazione nel segno dello sviluppo sostenibile, ridistribuendo opportunità di vita e non rendite. Chi si assume la responsabilità di negare questa prospettiva a Milano ed ai milanesi?

A Milano il 4 marzo si è fatto sentire ben forte il rintocco della campana delle periferie, non smette, e chiede risposte a chi governa la città.

Giuseppe Ucciero



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