12 marzo 2018

GILLO E LA SUA CITTÀ

Una memoria storica che scompare


L’ultimo articolo di Gillo Dorfles apparso sul Corriere della Sera, il quotidiano con cui collaborava dal 1947, è dedicato al tema “aprire o non aprire i navigli”. È un testo che rivela, indipendentemente dalla sua opinione vale a dire “non ha senso riaprirli”, la grande intelligenza progettuale di un filosofo che ha studiato medicina e psichiatria e che ha sempre rispettato la storia, senza però farsi condizionare dai difensori acritici del passato.

dorflesUna persona alla ricerca del futuro senza mai nostalgia. Per noi è facile dirlo, ben diverso per chi è nato nell’impero austro ungarico nel 1910, ha viaggiato in tutta Europa dai 18 anni in avanti per approdare negli Stati Uniti con una borsa di studio nell’immediato secondo dopoguerra (prima di Orianna Fallaci e tanti altri noti intellettuali e giornalisti): significa non fermarsi mai, tenendo comunque fermi alcuni principi che impediscono di essere abbagliati da un presente perentorio e immediato nelle sue certezze.

E la città era il suo laboratorio per orientare la conoscenza; nel caso dei Navigli, l’analisi mette al centro il fatto che le condizioni del presente non consentano vie d’acqua, utili esclusivamente per una sorta di ritorno al passato. No, e anche qui ha ragione Gillo, le città sono il risultato di stratificazioni, non solo estetiche ma soprattutto di carattere pratico, di utilizzo rispetto alle necessità, certamente guidate da un pensiero urbanistico coerente, aggiornato, né passatista né innovativo fino a non tenere conto della memoria. Ricordo, su questo tema, i viaggi di lavoro a Barcellona (dove i suoi libri hanno formato generazioni di architetti, designer, storici dell’arte) e gli incontri con Oriol Bohigas, il grande urbanista della trasformazione urbana della città catalana; ricordo riflessioni intorno al rapporto tra il mare e la terraferma, guardando sempre alle trasformazioni future come condizione per riscoprire, in modo inconsueto e inatteso, parti della città rimaste ai margini di uno sviluppo disordinato, senza pensiero.

Da qui, lo “scatto” di Gillo per convincere l’amico Oriol ad accettare l’invito, da parte del sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, a ridisegnare la relazione tra terra e mare, trasformando la costa da luogo di osservazione veloce a esperienza di carattere ludico, creando l’opportunità di un nuovo “intervallo” nella vita di tutti i giorni.

Tutto questo per Dorfles non era il risultato di astrazioni teoriche, ma il frutto di osservazione empirica, comunque sempre filtrata da una visione fenomenologica che gli veniva dall’amicizia e dalla frequentazione di un grande straordinario amico e filosofo, Enzo Paci, che negli anni ’60 insegnava teoretica alla Facoltà di Filosofia di Milano; quell’osservazione gli derivava dal suo amore per il Cilento e per Paestum, dove passava le vacanze di luglio, tra la pineta e il mare, tra l’archeologia e la frequentazione di alcuni altri cari amici, tra i quali Filiberto Menna, originale e geniale studioso di arte contemporanea, anche lui medico.

Ecco dove nascevano i progetti di Dorfles: quasi mai nell’accademia. Il mondo era il suo laboratorio, la città in particolare il suo “studio” quotidiano, e Milano la sua casa. Certamente, il mondo intorno e la relazione tra il particolare e l’universale come guida fondamentale per evitare di disegnare gli oggetti come i grandi sistemi urbani senza tenere conto della vita di tutti i giorni erano sempre al centro del suo impegno etico, dal quale la dimensione estetica doveva svilupparsi.

Ricordo una visita particolare all’Expo 2015 di Milano, nel mese di settembre, organizzata da Beppe Sala per due ospiti eccezionali, Gillo Dorfles e Arnaldo Pomodoro, due grandi milanesi d’azione. Dopo la visita ad alcuni padiglioni, dei quali a Gillo interessava l’immagine del futuro non tanto la storia e la condizione presente dei singoli paesi, alla domanda di Sala sulla destinazione del grande spazio urbano, Dorfles, con una straordinaria chiarezza e preveggenza rispose al futuro sindaco: ”certamente è necessario ospitare attività di ricerca applicata che in un certo senso derivano dal tema di Expo, ma senza disegnare anche una città da abitare, data la vicinanza fisica tra la Milano preesistente e la nuova aerea; il progetto non andrà, secondo me, da nessun parte”. Beppe Sala sorrise, ma credo che quelle parole gli siano rimaste in mente

Progettare cose, oggetti, ma soprattutto architetture e parti della città, senza pensare che appartengono a una vissuto che ha radici nelle abitudini e nelle relazioni, significa non comprendere la complessità antropologica del sistema urbano; per utilizzare alcuni titoli dei suoi libri, ancora straordinariamente attuali, abbiamo bisogno di “intervalli”, di vuoti e di pieni, di “Artificio e Natura”, essendo consapevoli che il mondo è pieno di “fattoidi” che hanno sostituito i “fatti”.

Gillo Dorfles alla soglia dei 108 anni se n’è andato, ma ci ha lasciato una serie di percorsi progettuali ancora da intraprendere, fondamentali per evitare che le città come le persone si trasformino in “fattoidi”, ovvero, dalla locuzione americana “factoid”, diventino fatti irreali. Guardatevi intorno, anche nella politica di questi giorni, alcune esperienze appartengono più alla categoria dei “fattoidi” che a quella dei fatti. Mettiamoli alla prova, poi scopriremo, come Gillo da alcuni anni scriveva, che è necessario riprendere in mano la responsabilità di progettare nel segno di una ragione controllabile, senza perdere di vista, ovviamente, la dimensione estetica.

Aldo Colonetti



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