12 settembre 2017

VANTAGGI ECONOMICI DELLE TRASFORMAZIONI URBANISTICHE

Oltre la normativa: non possiamo limitarci a valutare solo oneri


Come noto, nelle trasformazioni urbanistiche ci sono vantaggi e svantaggi per i privati investitori e per la collettività, in termini ad esempio, sul lato svantaggi, di maggiori congestioni e di costi delle opere necessarie per risolverli e, sul lato vantaggi, di profitti individuali e di miglioramento diffuso dell’ambiente e delle attività economiche. Tutti aspirano a un modello “win-win”, dove cioè sia la collettività che il privato investitore abbiano un vantaggio dalla trasformazione urbanistica; non sempre questo accade, e pertanto la valutazione preventiva dei reciproci vantaggi/svantaggi ha assunto grande rilevanza nel dibattito e nella normativa di settore

08praderio29FBIn questa valutazione preventiva della validità di un progetto urbanistico è molto diffuso il metodo di calcolare i vantaggi per la collettività in termini di oneri versati, di opere pubbliche realizzate, di aree cedute, di eventuali contributi aggiuntivi (extraoneri, edilizia di interesse pubblico, etc.).

Questo metodo ha certo i suoi pregi, fra cui la semplicità, la comunicabilità, la possibilità di raffronto fra progetti diversi; ma in realtà la questione è più complessa, e anche limitandosi ai soli aspetti normati dalle leggi, senza tenere conto cioè dell’indotto economico complessivamente generato dalle trasformazioni urbanistiche, la valutazione andrebbe estesa, oltre al tradizionale calcolo degli oneri e dei contributi aggiuntivi, anche ad altri aspetti, quali perlomeno quello delle le tassazioni delle plusvalenze immobiliari e della proprietà fondiaria o, all’opposto, delle quote di finanziamento pubblico a favore delle iniziative private.

Entrando maggiormente nel merito, sul primo punto (quello di oneri ed extraoneri), nel dibattito ultimamente è stata data grande importanza all’innovazione introdotta dal legislatore – anche per venire incontro a esigenze attuative del PRG di Roma – all’art. 16 DPR 380/01 e in particolare al comma 4 lett. d-ter, che stabilisce che gli oneri di urbanizzazione siano determinati in relazione “alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d’uso. Tale maggior valore, calcolato dall’amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata”. Questa disposizione (e il comma che segue) richiedono un’attenta lettura e alcune valutazioni interpretative. Si applica infatti:

– alla determinazione degli oneri deliberata dal Consiglio Comunale; in assenza di questa, non è dunque applicabile;

– ai casi di variante urbanistica e di cambio d’uso: ma, per motivi di equità, dovrebbe applicarsi anche ai casi di nuovi piani regolatori generali (che variano appunto le precedenti destinazioni) e non solo alle varianti puntuali; trattandosi però come detto di un onere di urbanizzazione, questo è dovuto solo in caso di intervento, e non al solo variare della destinazione

– al maggiore valore generato da interventi su “aree e immobili” e facendo quindi riferimento al cosiddetto “valore di trasformazione” (deducendo quindi dal valore di vendita tutti i costi sostenuti) e non la semplice differenza fra i valori finali di vendita del bene trasformato. Per dare un ordine di grandezza, in caso di trasformazione d’uso da produttivo a terziario, se i valori di vendita fossero rispettivamente di 1.000 e di 2.500 €/mq, i valori di trasformazione sarebbero invece grosso modo di circa 200 e 500 €/mq; di conseguenza la differenza di valore non sarebbe di 1.500€, bensì di circa 300€ (ben di meno).

Su quest’ultimo punto, è da notare che la normativa regionale lombarda, come applicata dal PGT di Milano, assoggetta invece normalmente i cambi d’uso ad un’altra forma di contributo, quella della monetizzazione delle aree a standard non cedute (dico “normalmente” perché ci sono anche casi anomali, per cui la monetizzazione non è dovuta se si fanno esercizi di vicinato, ma se si fanno servizi privati sì: e quindi se faccio un McDonald non pago, se faccio un asilo nido o una biblioteca privati invece sì – misteri del PGT).

Sempre a titolo di esempio e per fornire un ordine di grandezza per un caso di cambio d’uso simile a quello illustrato sopra, la monetizzazione in zone periferiche dove sono riscontrabili valori di vendita produttivi e terziari paragonabili a quelli sopra, vale ad oggi mediamente circa 200 €/mq. In altre parole, e con tutti i limiti di approssimazione già evidenziati, applicando la norma del versamento del 50% dell’incremento di valore generato dal cambio d’uso e sommandola ai valori di monetizzazione, il versamento totale potrebbe essere pari o addirittura superiore all’incremento di valore del cambio d’uso stesso, finendo per disincentivarlo.

È ragionevole quindi che la legge abbia previsto al successivo comma 4bis di “fare salve” le normative regionali e comunali vigenti, per consentire un efficace allineamento delle diverse disposizioni e un eventuale criterio di prevalenza.

Ma, da un punto di vista strettamente teorico e si potrebbe dire disciplinare, quale dei due sistemi appare più ragionevole? In quello tradizionale (oneri più cessione di aree o loro monetizzazione) alla base è sempre presente un minimo di razionalità tecnica: ad un nuovo insediamento corrisponde la necessità di realizzare opere di urbanizzazione (che hanno un costo) su aree da mettere a disposizione (con il loro relativo valore): oneri e monetizzazioni andranno quindi a coprire tali costi (e, per inciso, nessuna area ha “costo zero” neanche in assenza di diritti edificatori, come sa bene chi ha avuto la ventura di avviare una procedura di espropriazione e come però sembrano aver dimenticato certi professori e certi ex assessori che ultimamente parlano di “valore zero” delle aree).

Il nuovo criterio previsto dalla legge sembra invece una sorta di “mezza”: tanto guadagni tu privato, tanto guadagno io ente pubblico. Personalmente ho forti perplessità sulla solidità teorica di questo approccio che – probabilmente mi sbaglierò – sembra aprire strade pericolose a discapito della “terzietà” e dell’indipendenza delle valutazioni dell’Amministrazione Pubblica, che finirebbe a essere parte in causa, direttamente interessata alla creazione comunque di incrementi di valore mediante maggiori cubature o previsioni di funzioni solo altamente remunerative.

Si rischierebbe dunque di rinunciare a tassare gli incrementi di valore immobiliare generati da nuove destinazioni urbanistiche? In realtà altri strumenti ci sono, anche se a volte meno noti o scarsamente utilizzati.

Sulle proprietà fondiarie ad esempio come noto c’è l’IMU sulle aree fabbricabili; certo anche qui ci sono Comuni che magari dopo un anno o due dopo aver approvato il loro nuovo PGT non hanno neanche provveduto ad aggiornare i valori di raffronto corrispondenti, perdendo di vista la possibilità di monitorare la relativa tassazione.

Sulle plusvalenze (tema quanto mai complesso e specialistico), giova invece ricordare provvedimenti come quello dell’art. 7 L 448/2001, in teoria temporaneo, ma in realtà prorogato in modo sommesso e poco visibile anno dopo anno fino a credo il 2015, che consentiva di ridurre la tassazione sulle plusvalenze immobiliari al 4% e in alcuni casi al 2%, con l’esito prevedibile di spingere a trasferire per motivi fiscali i redditi generati dalle trasformazioni nelle stime del valore iniziale degli immobili, anziché nelle trasformazioni stesse, con il noto esito di business plan irrigiditi perché prosciugati e inariditi di ogni possibile goccia di profitto successivo.

Ciò è causa non ultima dei tanti progetti fermi al palo per motivi finanziari (e pensare che ci sono ancora PGT sciagurati che pensano di raggiungere il bilancio economico delle trasformazioni di piano mediante la contrattazione urbanistica, senza capire che, in caso di immobili già destinati – non soggetti quindi a variante urbanistica contestuale come nel caso dei PII o strumenti simili – tali margini di contrattazione sono sostanzialmente già definiti; per noi parlare poi dei PGT che affidano tale bilanciamento addirittura al triennale opere pubbliche, trucco maldestro e disperato escamotage che – ahimè! – la legge gli consente di fare … ).

Questo a dimostrazione di come ci siano norme magari meno visibili e meno sotto i riflettori di quelle relative agli oneri, che incidono però in modo forse più significativo sulla remuneratività degli interventi e sui reciproci vantaggi pubblico/privato.

Infine, bisogna considerare anche il tema inverso, quello del finanziamento pubblico ai progetti di trasformazione. Come ci ricorda un recente articolo del Sole24Ore nei nuovi progetti in area milanese la quota di finanziamento pubblico copre il 70% degli investimenti (cosa che in qualche modo sembra superare un tipico motivo di orgoglio milanese, quello dei progetti “che camminano sulle loro gambe”, senza cioè necessità di “aiutini” pubblici – stranamente disponibili ora in modo abbondante, dopo anni che ci ripetevano che “non ci sono più soldi”).

Qui però il tema diventa quello più vasto dell’indotto generato complessivamente sul tessuto economico urbano, che trascende come già detto la finalità della presente nota, tesa più semplicemente a far rilevare come, anche solo da un punto di vista normativo, la valutazione dei vantaggi economici di una trasformazione urbanistica non si possa limitare a quella sola degli oneri e dei contributi aggiuntivi. Insomma, la materia è vasta e richiederebbe verosimilmente una riflessione ancora più articolata e un dibattito più approfondito.

 

Gregorio Praderio


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