18 luglio 2017

CHI HA PAURA DELLA PARTECIPAZIONE?

Un’idea di politica messa nell’angolo


Primo anno della nuova amministrazione ormai passato, si dà il via ai bilanci. E al di là della valutazione dei risultati, quasi all’unanimità giudicati più positivi che negativi, una realtà è sotto gli occhi di tutti: la continuità rispetto alla “rivoluzione arancione” del 2011 può aver riguardato tanti aspetti, certo non il metodo della partecipazione che ne era alla base e che avrebbe dovuto – con il tempo e la preparazione – coinvolgere anche i processi decisionali.

3d people - men, person pushing last piece of puzzle.

È che non si è mai chiarito abbastanza in quali termini. Sarebbe necessario distinguere innanzitutto meglio tra il partecipare per essere consapevoli e al corrente di quanto accade e partecipare con la possibilità di contribuire a fare andare le cose in una direzione anziché in un’altra. Una platea piena di gente che ascolta un dibattito non è di per sé un incontro “partecipato”; al massimo è affollato di persone che desiderano informarsi; non è un luogo dove si prendono decisioni condivise. Ma da dove nasce quest’equivoco di fondo, divenuto una sorta di luogo comune persino fastidioso?

Qualche sera fa si è svolta a Palazzo Marino, in Sala Alessi, un’assemblea pubblica dedicata alla riqualificazione degli scali ferroviari: ancora una volta con tante voci critiche, ma con la differenza che l’Accordo di Programma tra Comune, Regione Lombardia e FS è ora cosa fatta. A parte l’ordine del giorno in se stesso, la serata ha fornito – se ce ne fosse bisogno – un altro spunto e occasione per riflettere sulle modalità con cui è entrata (o non entrata) attivamente la cittadinanza nel percorso degli ultimi mesi sugli scali perché si tratta infatti di un esempio eclatante ed emblematico.

Nessuno potrà dire che il futuro di queste aree non sia stato un argomento “politico” molto dibattuto. Sono stati organizzati workshop, tavoli tematici, confronti; ogni forza politica di centrosinistra ha ricevuto, è evidente, l’input di stimolare il coinvolgimento e la sensibilizzazione dei milanesi, di raccoglierne dubbi e obiezioni. Ciascuno dei Municipi in cui è presente uno dei sette scali dismessi ha organizzato un lavoro specifico con interventi qualificati, si sono costituiti gruppi, firmati appelli. Ma tutte queste energie spese, a che cosa sono servite?

Nel suo intervento in sala Alessi, Luca Beltrami Gadola si chiedeva perché a Milano si voglia fare naufragare la partecipazione e che cosa ci sia dietro. Se lo chiedono in molti, che cosa ci sia dietro il calo progressivo di rilevanza politica di quella che è stata l’unica, vera novità degli ultimi anni, che ha portato tante persone a interessarsi di nuovo ai problemi, a tornare a votare dopo anni di sfiducia e astensionismo; l’humus sul quale si è costruita una ripresa, fatta di amicizie personali e alleanze civiche, politiche. Un naufragio non dovuto soltanto a un processo storico in evoluzione, ma nel quale si sommano diverse responsabilità.

Nessun sindaco o assessore avrebbe potuto pensare – nel 2016 – di proporsi per governare Milano rinnegando apertamente l’idea di condivisione e di progettazione partecipata; e anche nei cinque anni precedenti, nessuno si sarebbe mai sognato di dire che forse c’era stato, su quest’aspetto, un fraintendimento d’origine. Sarebbe stato un argomento troppo impopolare. Lo strumento non è stato rinnegato, quindi, si è trasformato però in un simulacro, un fantasma che aleggia tra modo di dire e facciata, tra ricordo del passato, presenza per accontentare chi ancora ci crede e assenza di fatto.

La responsabilità è almeno su due fronti: quello dei cittadini (non si parla dei pochi attivi, ma dei molti che lo sono stati solo per un breve periodo) che, dopo aver rivestito per un po’ un ruolo importante, non hanno saputo cogliere l’opportunità che si apriva; d’altra parte, i rappresentanti delle istituzioni hanno, scientemente, relegato via via la partecipazione in un angolo. Non è chiaro se questa faccia paura, se venga considerata superata, se darle di nuovo (e seriamente) spazio sia ritenuto pericoloso o fastidioso. Intanto nessuno pensa comunque di farla morire, bensì di tenerla “ibernata” fino alla prossima occasione in cui potrà servire, magari chissà, nella campagna elettorale per le Regionali.

Si farebbe invece più bella figura ad ammettere che il percorso partecipato non è alla portata di chiunque; e che non si può applicare a qualunque questione, perché molte richiedono specifiche competenze tecniche e implicano investimenti economici ingenti: impossibile quindi che i cittadini possano avere davvero voce in capitolo. Si farebbe prima a riconoscere che in molti casi la partecipazione ha dei limiti, perché finisce per basarsi sull’emotività e sugli interessi particolari piuttosto che su oggettive valutazioni. Invece no, si preferisce dare l’illusione che il parere delle persone abbia sempre un peso, anche se in realtà non è affatto così.

Senza nulla togliere a quanti ci hanno creduto veramente e si sono scontrati, semmai, con la difficoltà di metterla in pratica, la partecipazione è stata per altri solo il trampolino di lancio, il cavallo di battaglia nel nome del quale una nuova generazione politica ha potuto farsi conoscere e centrare obiettivi. Le decisioni, quelle vere, continuano a prenderle in pochi, come del resto è sempre stato. Qualcosa si è mosso, ma non abbastanza, e si rischia ora di fare passi indietro. Nel 2016, nella nuova Giunta, è stato istituito anche un assessorato alla partecipazione: non è un caso che se ne senta così poco parlare.

Ma dove è andato a finire allora il modello Milano, che cosa ne è rimasto? Un “ricambio generazionale” c’è stato, ma il sistema è tornato quello vecchio: più rapido, più tranquillo e probabilmente, in un certo senso, oltretutto più produttivo di risultati. Nonostante l’apertura, le tante buone intenzioni di soggetti singoli, gruppi e movimenti che animano il centrosinistra, la politica a Milano non cresce, non si coinvolgono nuove persone e se ne perdono tante per strada. Non ci sono, allo stato attuale, problemi abbastanza incombenti o progetti tanto forti da tirare dentro chi sta fuori.

E persino per chi si impegna da tempo, l’inutilità di fondo di questa modalità di condivisione a intermittenza controllata solleva domande senza risposta. La volontà di fare rimane, ma fare il volontario a vita è un lavoro troppo duro se, oltre a sottrarre tempo al resto, è sentito come superfluo. L’esempio del 2011 non è più, per il momento, percorribile. Qualche giorno fa, incontrando dopo tanto tempo una “militante della prima ora” le dico: “Da quando hai abbandonato la politica non ti si vede più”, “È la politica che ha abbandonato Milano!”, mi risponde. Che abbia forse un po’ di ragione?

Eleonora Poli



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