14 febbraio 2017

MILANO HA TRADITO I SENZA CASA

La follia della politica edilizia


Che la “casa” sia stata e sia ancora un potente strumento di creazione del consenso, l’ho già scritto a proposito di Aler ma la crisi attuale, che vede il patrimonio pubblico in dissesto e le domande di alloggio – 30.000 a Milano – senza possibilità ridursi, è frutto di una legislazione confusa, inadeguata e risultato di troppe, forse inevitabili, mediazioni.

01editoriale06FBIl principale difetto è stato mescolare legislativamente il problema della casa, intesa come soddisfazione di un fabbisogno primario e dunque indipendente dal regime del suo uso -locazione o proprietà -, col problema dalla gestione del territorio e dalle sue destinazioni funzionali.

Il problema urbanistico in qualche misura doveva essere un “a priori” riguardando essenzialmente e per sommi capi una corretta distribuzione delle funzioni, delle loro quantità, della densità dell’edificato e, ovviamente, non trattandosi di città di nuova fondazione, con un ruolo di riequilibrio dell’esistente, mirato al modello urbano (noto?) cui si tende.

Lasciamo però a un’altra occasione le leggi che in qualche misura hanno anche contenuto urbanistico e limitiamoci alla legge 865 del 1971 che vide un duro scontro politico, legge sostanzialmente di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia agevolata-convenzionata.

Nonostante le sollecitazioni e le raccomandazioni delle tre confederazioni sindacali che premevano per un forte intervento nell’edilizia in affitto, il risultato fu di privilegiare il regime della proprietà con l’effetto, che avremmo scontato poi e mai come oggi, di radicare la popolazione al suo territorio impedendone la mobilità.

Altro effetto tutt’altro che secondario fu che le agevolazioni all’acquisto in termini di tassi di mutuo e di accesso a prezzi calmierati fu collegato ai livelli di reddito complessivo delle famiglie risultante dalla dichiarazione dei redditi, una sorta di beffa in un Paese malato di evasione fiscale: un sistema che penalizzava dal 1973 il lavoro dipendente con l’introduzione del sostituto d’imposta ma lasciava mano libera a tutti gli altri soggetti fiscali persone fisiche.

Il risultato paradossale fu di creare nel Paese una categoria di sfortunati: quelli che sforavano anche solo di poco i livelli di reddito fissati per legge ma non avevano redditi sufficienti per il libero mercato, moltissimi. Fu una grave ingiustizia perché se il benessere economico si valuta sulle somme spendibili dopo aver dedotto l’essenziale, il costo per la casa in primo luogo, a parità di reddito, alcuni per la casa dovevano accantonare il 25% del loro reddito (il mutuo essenzialmente), altri costretti al libero mercato della locazione anche il 60%.

Di tutti questi effetti fu ovviamente “vittima” anche Milano che comunque, storicamente, tra le città italiane fu la più dinamica e attiva nel promuovere la realizzazione di case “popolari” o assimilabili – cooperative edilizie “vere” -, tanto che verso metà degli anni ’70 circa il 30% della popolazione risiedeva in questo tipo di edilizia.

La vera tragedia però iniziò con la legge 560 del ’93 imponendo che in ogni provincia dovesse essere alienata parte del patrimonio di edilizia residenziale pubblica (non meno del 50%, non più del 75%), e che «sono soggetti a vendita gli edifici acquisiti, realizzati o recuperati a totale carico, o con concorso, o con contributo dello Stato, della Regione o di enti pubblici territoriali». Una follia.

Si iniziò il depauperamento dei patrimoni di edilizia pubblica: il ricavato fu ed è insufficiente non dico a sostituire il patrimonio venduto con uno nuovo e in migliori condizioni ma nemmeno a mantenere quello esistente; il patrimonio fu reso ingovernabile avendo costretto le amministrazioni e vendere singoli appartamenti creando condomíni tra pubblico e privato la cui vita è difficilissima sia per il pubblico sia per il privato; favorendo, con il meccanismo della prelazione, i residenti che poterono e possono acquistare a prezzi largamente di sotto il mercato e persino del puro costo di costruzione, indipendentemente dal loro reddito famigliare reale.

Siamo all’inizio della sindacatura di Marco Formentini, l’euforia delle vendite e delle privatizzazioni era appena iniziata e non si chiuse con la Moratti nel 2011 ma solo si attenuò. Vendere le case popolari aveva come motivo non dichiarato quello di liberarsi di qualche cosa che si sentiva estraneo: l’attenzione agli ultimi e alla loro vita, case che davano solo problemi di ordine pubblico. Le amministrazioni comunale, l’Aler e gli altri enti non se lo fecero dire due volte ma Milano, “obbligata” a farlo, tradiva i senza casa.

Da allora pochi o nessun investimento ma solo problemi di gestione. Quello che oggi si vede stanziato è poco, quel tradimento va sanato per equità sociale ma anche perché ….

Perché la casa, quello che anni prima il sindacato chiamava “un investimento sociale” oggi è diventato un “investimento infrastrutturale”: avere un patrimonio immobiliare di case a basso canone di locazione vuol dire dotarsi di un’infrastruttura importante come gli ospedali, le scuole, le linee di metropolitana. Bisogna collocare questi investimenti in cima alle priorità. Il problema casa va intrecciato al problema della mobilità e quindi dell’inquinamento; il problema casa va connesso a quello della ricerca in edilizia, ricerca per le nuove costruzioni e per il riuso; case a basso costo liberano parti consistenti dei redditi delle famiglie a favore dei consumi, consentono l’accesso ai giovani. E non solo. La casa dunque è un problema olistico e con questa logica va affrontato.

Luca Beltrami Gadola

 



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