18 ottobre 2017

musica – UN CONCERTO “RIVOLUZIONARIO”


Un concerto molto particolare quello della settimana scorsa all’Auditorium, il quarto della stagione sinfonica, dedicato al centenario della rivoluzione russa (i bolscevichi sono insorti a Pietrogrado nelle due giornate del 25 e 26 ottobre 1917).

musica34FBIl programma era composto dalla Patetica di Čajkovskij – la sesta Sinfonia opera 74 in si minore – e da un’opera di Sergej Prokof’ev mai sentita prima d’ora in Italia, la Cantata per il 20° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, anch’essa con il numero d’opera 74.

Diciamo subito che Oleg Caetani ha diretto Čajkovskij in modo esemplare. Perfettamente sostenuto dall’orchestra, ha sfoderato un elegantissimo fraseggio e un suono preciso e nitido da restarne incantati: il secondo tema dell’introduzione, quella melodia che riecheggia lungo tutta la sinfonia e ne è quasi il Leitmotiv, con lui diventa una ventata di aria fresca che a ogni apparizione scompagina e innerva il tessuto musicale.

Mentre l’ultimo tempo, l’Adagio lamentoso, lo ha giustamente interpretato come un commiato dalla vita: non è un caso infatti che la Patetica sia stata l’ultima opera di Čajkovskij (o meglio l’ultima numerata personalmente da lui) e che fu presentata al pubblico di San Pietroburgo, con la sua direzione, solo nove giorni prima della misteriosa morte (morte ufficialmente causata dal colera, ma della quale si è sempre sospettato si trattasse di un suicidio).

Se la Patetica è una delle opere più celebri ed eseguite della grande musica russa, la Cantata di Prokof’ev non solo è stata eseguita per la prima volta in Italia – e la si è ascoltata assai raramente in altri Paesi – ma paradossalmente non fu mai eseguita vivo l’autore, tantomeno quindi nell’occasione per la quale fu scritta (le celebrazioni del 1937). La prima esecuzione è avvenuta in Russia solo nel 1966, cinquant’anni dopo la Rivoluzione, trenta dalla sua composizione, tredici dopo la morte dell’autore.

È un’opera molto complessa, divisa come fosse un oratorio in tanti “quadri” (10 per la precisione), e necessita di una grande orchestra sinfonica, di strumenti anche inusuali come la fisarmonica, di molti fiati e percussioni, e di un doppio coro; un palcoscenico perciò strapieno di musicisti e, per l’occasione, anche un teatro gremito di ascoltatori.

Questa prima esecuzione era tanto sorprendente e tanto … politicamente impegnativa – se non altro per i testi che scorrevano sugli schermi (proclami di Lenin e di Stalin, inni propagandistici per incitare il popolo alla rivolta, stentoree celebrazioni della vittoria finale, etc.) – che Caetani, prima di prendere in mano la bacchetta, si è sentito in dovere di prendere il microfono e fare un ‘discorsino’ introduttivo.

Ha raccontato che Prokof’ev, dopo aver trascorso la prima metà della vita viaggiando fra Europa (Parigi, Londra) e Stati Uniti (San Francisco, Chicago), nel 1936 a quarantacinque anni ha deciso di rientrare in Russia, spinto da una potente nostalgia della terra d’origine, e che poco a poco si è fatto travolgere dall’entusiasmo per la rivoluzione socialista. Ha spiegato come nel 1936, quando Sergej preparava la Cantata che l’anno successivo avrebbe dovuto celebrare il primo ventennio della rivoluzione, il famigerato “terrore staliniano” non era ancora avvertito (la vera tragedia inizierà proprio nel 1937) e non si era ancora manifestato l’ostracismo del regime sovietico nei confronti del musicista.

Quel regime, ricordo, che subito dopo la guerra (1948) si esprimerà con una delibera del Comitato Centrale del Partito sostenendo che la musica di Prokof’ev “pecca di intellettualismo e di perversioni formalistiche, è complicata e astratta, avulsa dalla realtà e contiene gravi errori formalistici e naturalistici (sic!)”. Anche se poi gli furono assegnati sei Premi Stalin e, dopo la morte, addirittura il Premio Lenin.

Ci si chiede come mai Stalin non permise che la Cantata fosse eseguita durante le celebrazioni del ’37. La spiegazione più probabile è che in quell’anno gli equilibri del potere sovietico, forse proprio a causa delle tragiche e sciagurate “purghe staliniane”, fossero troppo delicati per consentire che la Rivoluzione di Ottobre venisse rappresentata con tanta forza e vitalità da un compositore che a quella rivoluzione non aveva personalmente partecipato e che era appena rientrato dall’Occidente dove aveva felicemente vissuto per tanti anni. Prokof’ev dunque non ha mai potuto ascoltare questa sua opera, che è peraltro fra le più impegnative della sua pur ricca produzione.

Mi rendo conto di come sia difficile da accettare, ma la Cantata riesce a tal punto a trasmettere l’entusiasmo di allora per la neonata rivoluzione bolscevica da venirne travolti. Quella storia, della quale molti di noi vedono soltanto cupezza, tragicità, violenza, l’oscura “dittatura del proletariato” e soprattutto le nefandezze delle deportazioni nei gulag, improvvisamente ci appare vestita di freschezza, di grandi speranze, di fiducia in un futuro migliore, di redenzione rispetto al passato, dominato da un’altra feroce dittatura, quella dell’odiato “capitale”.

E la musica dà il meglio di sé esprimendo questo entusiasmo e questa freschezza da una parte con una sconvolgente potenza, dall’altra da dolcissimi sentimenti come nel caso del primo coro (“I filosofi finora hanno solo interpretato il mondo, l’importante è trasformarlo” di Karl Marx) o nella Sinfonia che precede l’ultimo numero Costituzione (“È una soddisfazione, una vera gioia sapere che il sangue versato a profusione dai nostri ragazzi non è stato versato invano” dal rapporto di Stalin all’8° Congresso dei Soviet, 1936).

Il coro, perfettamente istruito da Erina Garbarini, ha stupito per la forza e per la difficile e bella dizione in lingua russa; all’orchestra laVerdi dell’Auditorium, in forma smagliante, si sono aggiunti i fiati della Filarmonica Paganelli (6 trombe, 2 corni, 2 sax contralti, 2 tenori e 2 bassi oltre a un tamburo) preparati dalla sua direttrice Donatella Azzarelli.

Di Oleg Caetani abbiamo detto più volte ogni bene: figlio di un grande musicista russo e di una nobildonna di antica famiglia romana, unisce intimamente il sentimentalismo e la forza dell’animo orientale alla raffinata eleganza della cultura occidentale. Un connubio perfetto per un evento delicato, complesso, e molto difficile da portare al successo. Che invece gli ha pienamente e felicemente arriso.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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