4 aprile 2023
UCRAINA, UN ANNO DI GUERRA
Riaprire una discussione pubblica, tra principi e sicurezza globale
4 aprile 2023
Riaprire una discussione pubblica, tra principi e sicurezza globale
Guerra e pace in Ucraina, se ne può parlare liberamente? Una cappa di conformismo sembra calata sul conflitto e, mentre il sostegno popolare si intiepidisce, la dialettica politico-istituzionale non si pone neppure la possibilità di esplorare vie d’uscita diverse dalla sconfitta di Putin sul campo di battaglia, augurabile ma gravida di rischi e non risolutiva delle questioni che hanno generato la crisi russo ucraina.
Tace perfino il PD, luogo elettivo del dibattito (anche a vanvera). Sarà sfuggito qualcosa, non pare di ricordare altro che stringate prese di posizione o voti parlamentari. Non un’assemblea, un incontro pubblico, un dibattito articolato. Tutti allineati e coperti. Sta molto attenta anche Elly Schlein che sa bene quanto il tema scotti. Qualcosa trapela, ma una grande cautela è d’obbligo. Tantomeno, si distanzia Giorgia Meloni che, appena entrata a Palazzo Chigi, ha subito messo da parte le chiacchiere elettorali su di un’Europa capace di marcare, nell’unità di intenti, una visione distinta dagli USA. Chi si illudeva anche a sinistra (ma quanto è brava la Meloni..) ha trovato il suo benservito. Sul Signor B e su Salvini il silenzio è invece d’obbligo. Solo Giuseppe Conte cerca di differenziarsi, ma su M5S gravano pesanti ipoteche di ambiguità nei rapporti con Russia e Cina.
Eppure, bisogna discutere di questa crisi, non fosse che per il fatto elementare che è in gioco il futuro del paese e non solo. Parliamone, uscendo dalla rappresentazione caricaturale delle diverse posizioni (schiavi americani – servi di Putin), con la consapevolezza di una complessità che non si può rimuovere.
La guerra infuria da un anno tra Mosca e Kiev, ma molti di più nel Lugansk e nel Donetsk, almeno dal 2014: la rimozione dell’antefatto è parte del problema. L’Occidente in questo ha la sua parte di responsabilità, cosa che non toglie a Putin quella di gran lunga più grande. E’ difficile distogliere lo sguardo dalla devastazione che l’aggressione russa infligge alla popolazione ucraina, replicando lo schema criminale già sperimentato in altri conflitti post sovietici (Cecenia, Georgia, Siria..). Si impongono l’empatia spontanea con l’aggredito e, per molti, il sostegno con le armi.
Vero, ma cresce anche la consapevolezza che occorra di più che stare a fianco, armare ed attendere che qualcosa di risolutivo accada. Occorre alzare lo sguardo, ampliare la prospettiva nel tempo e nello spazio, distinguere i fili nel grande groviglio, provare a tirarli e districarli. Occorre la politica, mai come ora, per cambiare l’inerzia angosciosa delle cose, per dare al desiderio di pace punti di applicazione concreta. Quale opzione di fronte a noi? Sostenere “senza se e senza ma” il popolo ucraino ed il suo governo? O all’opposto, interrompere l’invio delle armi, senza le quali la guerra sarebbe finita sì, ma nel trionfo della destra imperialista di Putin, nell’incatenamento del libero popolo ucraino e nella crescente destabilizzazione degli stati vicini? Perché non pensare piuttosto ad un percorso che, nel sostegno, assicuri giustizia e sicurezza universali.
Papa Francesco fa il suo, ma agli stati ed alle forze politiche tocca di tradurre il precetto spirituale in iniziativa concreta, giusta perché ristabilisce principi essenziali e praticabile perché possibile nei rapporti di forza sul campo.
Ci provano i cinesi, pro domo propria, proponendo alcuni principi utili ad abbassare la temperatura del conflitto. Zelenski chiama XI Jin Pin, come forse non desideravano gli USA. Se i cinesi, tanto lontani (ma non erano “vicini”?), si muovono, dell’Europa si dice amaramente come due secoli fa il cancelliere Metternich dell’Italia: un’espressione geografica. Pessimo profeta: abbiamo speranza?
L’Unione Europea denuncia una grande difficoltà di iniziativa. Eppure al nostro continente toccano le conseguenze più gravi (economia, energia, ambiente, povertà, rischio nucleare). Il riconoscimento dei comuni interessi continentali dovrebbe stimolare una diversità di toni e proposte dagli americani, ma l’atlantismo di ritorno soffoca sul nascere l’articolazione di un diverso pensiero strategico europeo. La partita ucraina è anche la partita del comando in Europa. Chi vuol vincere nel 2024, cerca ora protezione e legittimazione a Washington: c’è un prezzo da pagare e Meloni, come altri, è ben disposta al versamento. Vinte le elezioni, si vedrà.
Il viaggio di Von Der Leyen a Pechino, guardata a vista da Macron, vorrebbe essere un segno di vita, ed una tenue speranza li accompagna. Un tentativo serio va fatto, guardando ai fondamentali della storia e della geografia, ai principi dei rapporti internazionali ed alla dinamica delle forze in campo. Tre, a mio avviso, le questioni principali: autodeterminazione dei popoli, sovranità territoriale degli stati, sicurezza globale, distinte ma interdipendenti.
Il conflitto russo ucraino, endemico da secoli, rinasce con il crollo dell’URSS e la dissoluzione dell’edificio sovranazionale che teneva assieme decine di repubbliche, centinaia di popoli ed etnie, nella pace apparente dei “popoli fratelli”. Con il 1991, conti vecchi e nuovi sono stati regolati disordinatamente, e mentre nascevano nuove repubbliche autonome da Mosca, vecchi fuochi riprendevano vigore ed altri si accendevano. I timori di un Est instabile hanno infine preso corpo.
Come temevano molti autorevoli leader occidentali, dopo i Balcani ora tocca a popoli e stati a diretto contatto con la Russia, cosa immensamente più pericolosa. L’Occidente fece allora promesse poi disattese, ed è bene ricordare che la neutralità degli stati vicini non è un regalo alla volontà di potenza russa, ma anche saggia garanzia per l’Occidente a che scontri locali non inneschino conflitti globali. Portare la Nato ai suoi confini (è certa l’adesione di una Finlandia storicamente in lite con la Russia), con i suoi meccanismi di protezione automatica, aumenta enormemente i rischi per tutti.
In Ucraina, emergevano i contenziosi in Crimea, Lugansk e Donetsk. La prima russa dal 1784, “donata” nel ’54 dal leader Kruscev alla patria ucraina, quando i confini tra le repubbliche sovietiche erano irrilevanti e la devoluzione simbolica. Era russa, la maggior parte del suo popolo è russofono e russofilo. Statualmente la Crimea era ed è ucraina, ma la storia dice diversamente, come anche il referendum popolare del 1994, certo non la farsa tragica del 2022. La convivenza delle etnie russe ed ucraine nel Lugansk e nel Donetsk si è fatta sempre più difficile, nel combinato disposto dell’ipernazionalismo ucraino e del revanscismo russo. Gli Accordi di Minsk I e II, sponsor Francia e Germania, non hanno funzionato e l’ingerenza russa nelle vicende politiche nazionali è un fatto storicamente accertato, come la durissima “derussificazione” del Governo di Kiev.
In questi contesti, dove i torti e le ragioni si intrecciano e sedimentano, affermare il principio della sovranità degli stati nati dal crollo sovietico, ignorando storia e principio dell’autodeterminazione dei popoli travolti dalle sue macerie, appare legittimo ma riduttivo e foriero di gravi problemi. In questa prospettiva un percorso di pacificazione dovrebbe procedere tenendo in linea entrambi i principi, assegnando all”autodeterminazione dei popoli il criterio guida ed alla sovranità nazionale quello di vincolo non valicabile con atti unilaterali. La parola dovrebbe tornare ai popoli, ma come fare oggi in una situazione così compromessa. Come potrebbe essere legittimo un referendum popolare in Lugansk e Donetsk, ribollenti di odio e senza una parvenza di infrastrutture politico istituzionali e sociali funzionanti e condivise, senza attivare un processo che ristabilisca, con il cessate il fuoco, le condizioni essenziali per un legittimo pronunciamento popolare?
E poi, davvero la questione si può prospettare solo nei termini di una secessione / amputazione della sovranità ucraina o non si potrebbe pensare piuttosto a forme di convivenza protetta come quella che la nostra Italia ha costruito con la minoranza germanofona del Sud Tirolo? E come non distinguere, quanto a processo e possibile esito, tra Crimea e gli altri due Oblast?
Enunciati i principi, la loro applicazione pare di difficilissima attuazione, quasi a legittimare in concreto l’opzione bellica che ha il “pregio” di apparire semplice, talmente chiara da apparire l’unica possibile, quanto invece è pericolosa. Prevale un’aspettativa che affida ai combattimenti dei prossimi mesi il compito di fissare sul campo diversi rapporti di forza, su cui fondare una nuova fase di regolazione del conflitto.
Il fatto è che, e qui si tocca il nocciolo più duro del contenzioso, dietro alle questioni della sovranità e dell’autodeterminazione dei popoli, stanno quelle ancora più rilevanti del conflitto, durissimo e sempre meno in controllo, tra Russia ed USA, contenzioso che riporta tutto a sé, togliendo spazio alle ragioni specifiche dei popoli e degli stati, subordinandole alle pretese egemoniche e/o alle garanzie di sicurezza, vere o presunte.
Il problema di fondo allora non è se vogliamo o no mandare le armi a Kiev, e neppure se vogliamo o meno affermare i principi della sovranità statale o dell’autodeterminazione dei popoli, ma quale architettura di reciproche garanzie Nato e Russia si vogliono o possono dare, aggiornando il contesto di relazioni dove ricostruire un minimo quadro di fiducia che, solo, può porre le premesse per la riduzione del conflitto russo ucraino, generando gli spazi per una maggior disponibilità negoziale.
Se invece il conflitto viene letto dalla leadership USA, principalmente, come opzione geostrategica per liquidare la Russia come potenza globale, o dalla Russia come sola opzione disponibile per riaffermare, rinnovata potenza imperiale e difesa degli assetti di sicurezza, appare ovvio che nessuno spazio potrà aprirsi nella direzione di una ricomposizione.
Gli USA sono la potenza dominante ma vivono in un altro continente: chi se non l’Europa ha interesse a ripensare ad una nuova partnership con la Russia?
Giuseppe Ucciero
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