5 aprile 2022

BENI COMUNI, BENI PUBBLICI, PARTECIPAZIONE

Equivoci da chiarire


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Considerare i patti di collaborazione uno strumento per realizzare il bene comune può essere fuorviante, ingenuo, se non errato, e fonte di equivoci.

La locandina dell’incontro tenutosi il 26 marzo alle ACLI di Lambrate recava questo titolo: gestire insieme i beni comuni, i Patti di collaborazione del Comune di Milano.

Non ho potuto partecipare, né seguire via internet la discussione e mi rammarico perché l’argomento mi sta a cuore, la partecipazione alla vita pubblica è essenziale e vitale per la democrazia di un paese, e certo i cittadini possono contribuire ma ritengo che per non confondere i diversi pani di azione e di responsabilità spetti innanzitutto alle forze politiche realizzare il bene comun: è il compito che devono assolvere nelle istituzioni pubbliche. 

Su questi principi penso non ci possano essere dubbi e dovrebbe essere chiaro a tutti in cosa consista la missione della politica da una parte e l’esercizio della cittadinanza attiva e consapevole dall’altra. Considerare i patti di collaborazione uno strumento per realizzare il bene comune può essere fuorviante, ingenuo, se non errato, e fonte di equivoci.

Penso possiamo convenire che il bene comune è cosa diversa dai beni pubblici. Il bene comune è il fine a cui deve tendere l’azione politica riconoscendo che tutti abbiamo diritto in pari misura ad una serie di beni senza i quali non potremmo vivere, beni essenziali, materiali ed immateriali, senza i quali non potremmo realizzare in pieno la nostra umanità. Che insieme costituiscono quello che chiamiamo bene comune. 

La “polis” è l’ambito in cui si può perseguire il raggiungimento del “bene comune” nella sua accezione più alta. I beni comuni sono ben definiti nella nostra costituzione – salute – istruzione – lavoro – parità di diritti e doveri – solidarietà sociale. La nozione di bene comune comprende beni che, se in passato erano impliciti, oggi necessitano di essere ben chiaramente collocati entro la definizione di bene comune, come l’aria, l’acqua, il suolo, beni minacciati da uno sviluppo antropico che non ha saputo tener conto della limitatezza delle risorse ambientali del pianeta. I servizi che devono assicurare la disponibilità di tali beni comuni sono necessariamente pubblici, altrimenti i beni stessi perderebbero la caratteristica di beni comuni.

Per contro possiamo intendere bene pubblico un bene, che può anche essere un bene privato, messo a disposizione dei cittadini in modo che ne possano usufruire in quanto reso pubblico. Un parco, una strada, un terreno, possono essere sia pubblici che privati. Mi pare che sia più appropriato parlare di “patti di collaborazione” in questo caso, quando si tratta di condividere tra amministrazione e cittadini l’utilizzo e la gestione di un bene o di un servizio in base ad accordi da redigere tra le parti in vista di una comune utilità.

Vale la pena di insistere su queste precisazioni perché altrimenti alla confusione possono far seguito situazioni di ambiguità o di rinuncia dell’ente pubblico all’assolvimento dei compiti che gli spettano come doveri d’ufficio. Si pensi ad esempio ai servizi sociali, ai servizi di assistenza ai bisognosi, di sostegno alle disabilità, di contrasto alla povertà, di integrazione e accoglienza. In altri termini il welfare, il “benessere cittadino”, deve essere innanzitutto procurato dall’amministrazione pubblica, non demandato al buon cuore dei cittadini o alle istituzioni di carità, senz’altro benemerite, ma facoltative.

Intendiamoci, ben vengano tutti i progetti e le iniziative delle tante associazioni presenti nel tessuto sociale cittadino, sono una grande risorsa, contribuiscono ad elevare la qualità delle vite in molte situazioni di bisogno, ad offrire solidarietà e sostegno, ma non devono rappresentare una via alternativa alle funzioni pubbliche.

Noto che da anni il Comune sta attuando una politica di “esternalizzazione”, diciamo così, di molti servizi che in passato venivano gestiti in proprio e che sempre più spesso vengono cancellati o affidati ad altri. Anche in seguito a questa politica di dismissioni si è verificato un grande sviluppo del terzo settore, sono nate e si sono moltiplicate associazioni ed organizzazioni per svolgere servizi di assistenza e di sostegno che in molti campi integrano, se non sostituiscono, i servizi comunali.

Un fenomeno al quale non si presta forse la dovuta attenzione e che ha implicazioni rilevanti ed un grande impatto sociale, sia nei rispetti degli assistiti, sia nei riguardi dei prestatori d’opera.
Si giustifica la dismissione di tali servizi per ragioni di quadratura dei bilanci (non ci sono le risorse), affidandoli poi ad associazioni di volontariato, enti privati, organizzazioni umanitarie. Se il risparmio è l’obiettivo, è lecito pensare che la continuità e la qualità dei servizi non potranno essere mantenuti allo stesso livello, né che il personale addetto possa avere la stessa preparazione, le stesse garanzie di impiego, le stesse assicurazioni sociali garantite a chi svolge il lavoro a tempo pieno, con mansioni pienamente riconosciute dai contratti in cui devono essere inquadrati i lavoratori dipendenti dell’ente pubblico

Con ciò si sta procedendo di fatto ad una larvata “privatizzazione” di tanti servizi, il che comporta la precarizzazione del lavoro, da cui deriva sotto tanti aspetti la riduzione del “benessere cittadino”.
Se viene a mancare la funzione stessa dell’amministrazione pubblica, quella di garantire servizi sociali dignitosi, nel pieno rispetto dei bisogni degli assistiti e dei lavoratori, la politica si sottrae alla propria responsabilità.

Se si pensa che la partecipazione dei cittadini serva in qualche misura a sopperire a queste carenze siamo decisamente fuori strada, mi auguro non sia così, ma sarebbe importante riflettere e riconoscere alla cittadinanza attiva il ruolo che ad essa compete, quello del confronto libero e dialettico con il potere, senza il quale una società non può dirsi realmente democratica. Poi si potrà anche parlare di “patti di collaborazione”.

Paolo Burgio

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