2 maggio 2023

LAVORO, LIBERTÀ, CITTADINANZA

Primo maggio, feste laiche e religione civile nel nostro tempo.


 Copia di rification (1)

 “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (Art. 1 Costituzione, 1948). Una riga, poche parole, per legare la promessa della nuova cittadinanza alla vicenda storica: la forma repubblicana e democratica dello Stato è figlia della Liberazione ed incardina la nuova società sul lavoro. Una preziosa lezione politica e linguistica per scolpire il profilo essenziale della nostra vita politica e civile.

Il caso, o forse no, avvicina in primavera le date fondative dell’identità di nazione e popolo: venticinque aprile, primo maggio, due giugno, riti della nostra religione civile.

Una vicinanza temporale che simbolicamente allude allo stretto rapporto di senso tra gli eventi storici che siamo chiamati a celebrare ogni anno. Il fascismo, si tende ormai a dimenticare questa elementare verità storica, nacque come forma selvaggia di aggressione contro il movimento dei lavoratori, per impedire con la violenza, l’omicidio, la cancellazione delle libertà politiche, il profondo cambiamento sociale in atto nel nostro paese.

Il fascismo, neppure questo può essere occultato, fu finanziato, favorito, tollerato, dalle classi dominanti del tempo: aveva promesso la distruzione delle organizzazioni popolari  del lavoro e questo alla fine seppe dare. Per questo, la Resistenza trovò necessariamente nella lotta operaia e popolare la sua risorsa principale, e per questo la lotta antifascista unì desiderio di libertà ed affermazione del  valore sociale del lavoro.

Per questo infine quella stagione si tradusse nella creazione di un nuovo modello di stato, la Repubblica “fondata sul lavoro”. Dire oggi di “pacificazione” come se torti e ragioni fossero  equivalenti, non può essere accettato, non solo perché non corrisponde alla verità storica dei fatti, ma perché nega in radice i presupposti fondativi della nostra Carta e della nostra società. Per tenere vive verità e principi, anche la nostra Repubblica ha elaborato valori, luoghi e date: un culto civile che non nasce dalla “parola rivelata”, ma trova mandato ed ispirazione nel processo storico e nella volontà popolare. La nostra “città di Dio” nasce dalla Resistenza, dal desiderio incomprimibile di libertà ed uguaglianza. I suoi mattoni sono la fatica del lavoro, l’intelligenza creatrice, la memoria della lotta antifascista, la  convivenza democratica, il sacrificio eroico e quotidiano delle generazioni.

Ma oggi?

È lecito domandarsi se, ottant’anni dopo, quel principio di cittadinanza sia ancora vivo, se l’intreccio casualmente felice delle date e dei principi significhi ancora qualcosa, se sia tuttora riconosciuto e fertile. Qualcuno dubita e qualche altro opera per revisionare, con la memoria, anche una diversa cittadinanza, fondata sui principi mistificatori della “pacificazione”, della svalorizzazione del lavoro, della riduzione statalista  dei diritti e gli spazi di libertà. “Non disturbare chi vuole fare”, così Giorgia Meloni all’assemblea confindustriale e giù applausi, come se davvero i nodi più duri del nostro vivere fossero determinati dalla legislazione e dalle forze che oppongono la difesa dei “beni comuni” e la dignità del lavoro alla privatizzazione senza regole e senza limiti, non solo della produzione economica, ma ormai della stessa riproduzione sociale.

Scienza, lingua, cicli naturali, salute, corpi umani: sfere vitali, un tempo autonome ed esterne al processo produttivo, ma oggi sempre più privatizzate ed asservite funzionalmente ai processi di creazione del profitto.

Qui si situano nuovi confini del rapporto tra capitale e lavoro, nuovi spazi di conflitto ed identità, e con loro nuove forme dello stato e necessarie innovazioni della politica.

Se il novecento è stato il secolo del lavoro, questo che viviamo è segnato dalla sua profonda crisi. Il capitale ha saputo riorganizzare visione, strumenti ed ideologia, elaborando un racconto che rappresenta individualismo e mercato come i migliori contesti per selezionare talenti e meriti. Questo è il suo tempo, spalancato dal fallimento disastroso delle società socialiste. Si è abbassato l’orizzonte del possibile, dall’umanesimo utopistico della “città di Dio” in Terra, ad una difesa sempre meno convinta e condivisa del lavoro.

Il governo di destra ha scelto il primo maggio per varare il suo “Decreto Lavoro”, poche ore dopo averlo presentato, puerile foglia di fico, ai sindacati. Dopo la “pacificazione”, tocca al lavoro, derubricato a variabile secondaria della produzione.

Per Schlein, e Giuseppe Conte, la manovra consolida un impianto complessivo, di rapporti sociali e giuridici, già poco rispettoso della dignità del lavoro. Mentre si favoleggia di politiche della natalità, non si risponde alle minime necessità esistenziali per un progetto di vita: casa, salute, pensione, servizi sociali. Voucher, riduzione del reddito di cittadinanza, moltiplicazione delle causali certificate dai commercialisti… Donne e giovani ringraziano.

Il Partito Democratico, si gioca il grosso della  partita nella connessione (da ritrovare) con le più ampie fasce del lavoro, specie quello oltre i mondi più garantiti. Il vulnus del JOBS ACT sanguina ancora, e se Cecilia Guerra è la nuova responsabile del lavoro, non basterà una rondine per fare primavera. Occorrono fatti, pratiche e politiche strutturate: “qui si parrà la nobilitate”, qui il nuovo corso deve dimostrarsi all’altezza del nuovo tempo e non basteranno effetti speciali, richiami identitari ed “armocromie”.

Salario minimo, reddito di cittadinanza, riduzione dei contratti a tempo determinato, fine dei contratti pirata, reintegra nei licenziamenti senza buona causa, equità fiscale, false partite IVA, giusto compenso, previdenza flessibile (ape sociale, ape donna, lavori usuranti…), partecipazione alla gestione d’impresa, sicurezza, parole che aggiornano il profilo di una ritrovata cittadinanza del lavoro, continuum programmatico di temi e provvedimenti attorno a cui potrà riformarsi l’area del consenso democratico.

Svalutando il lavoro, in qualsiasi forma (dipendente o professionale, profit o cooperativistica, retribuita o volontaria….), si recidono le radici più profonde e vitali del nostro edificio sociale, costruendo una società ingiusta fondata sulla rendita, l’appropriazione smodata dei beni comuni, lo sfruttamento e la riduzione dei compensi al minimo vitale. Uno scenario ottocentesco, ma ben dentro questo nuovo secolo..

Uno scenario che trova anche a Milano manifestazioni eclatanti ma non per questo imprevedibili: quanta parte della ricchezza finisce oggi nelle mani della speculazione immobiliare, nell’intreccio con la finanza, e la rendita diffusa? Davvero qualcuno può pensare che non esista relazione tra l’impoverimento dei molti e l’arricchimento dei pochi, ben posizionati lungo la filiera della valorizzazione immobiliare? E quanto potrà reggere la bolla di un modello che attrae business e turismo da tutto il mondo ma caccia fuori dalla città i suoi lavoratori? Cosa sceglie Milano, cosa il PD, cosa Beppe Sala?

Cosa diviene lo Stato se si indebolisce la trama della cittadinanza?

 “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, oppure no?

Giuseppe Ucciero



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Tutti i campi sono obbligatori.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.


Sullo stesso tema


9 aprile 2024

QUALE MILANO STIAMO COSTRUENDO?

Bianca Bottero e Sonia Occhipinti



19 marzo 2024

NON PARLATE AL GUIDATORE

Giuseppe Ucciero









20 febbraio 2024

MILANO PURISSIMA

Giorgio Goggi



6 febbraio 2024

I CONTI COL FASCISMO

Mario De Gaspari


Ultimi commenti