22 febbraio 2022

MANI PULITE

In attesa di una svolta che non c’è mai stata


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Ammaliati dalle cifre tonde e dai decennali, non abbiamo rinunciato a “celebrare” tangentopoli, cioè precisamente quel giorno icastico, quel principio della storia, in cui il mariuolo venne colto con le mani nel sacco e con i soldi nello sciacquone. Era il 17 febbraio 1992. Quando i carabinieri si presentarono alla sua porta, Mario Chiesa, il mariuolo, era nell’ufficio al Pio Albergo Trivulzio, la nostra confidenziale antica Baggina, dove solo pochi mesi fa in tanti fra gli ospiti anziani morirono di Covid, per una “sottovalutazione iniziale del rischio”, secondo la Procura di Milano, per una “carenza oggettiva” di interventi “per evitare il diffondersi dell’epidemia”, perché la direzione si era persino opposta “nei primi giorni di marzo” del 2020 “all’utilizzo di mascherine”. 

Mascherine e tamponi poco avrebbero a che vedere con la malattia di tre decenni orsono, i cui sintomi peraltro si erano manifestati parecchio tempo prima, ai tempi di Alberto Teardo, savonese e socialista, o di Vittorio Zampini, torinese e socialista. Siamo con i due precursori, Teardo e Zampini, nei primi anni ottanta quando persino Le Monde s’era accorto del disastro incombente, scrivendo che la tangente era per l’Italia “un male altrettanto pericoloso del terrorismo”. 

Covid e tangenti un’epidemia si sono rivelati e, prendendo a prestito il modello proposto dal quotidiano francese, la seconda ben più pericolosa della prima, ben più devastante, per quanto di morti ne abbia mietuti pochi rispetto al virus (anche in questo caso sul numero vi è discordanza di conto: ricordo, tra gli altri, Sergio Moroni, l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, Raul Gardini). 

Al momento la battaglia anti corruzione venne condotta dal celebre pool Di Pietro, Colombo, Davigo, guidati da Gerardo D’Ambrosio e da Francesco Saverio Borrelli, tra il plauso dei cittadini, pronti a incoraggiarli clamorosamente e chiassosamente fin sotto le scalinate di Palazzo di Giustizia, alzando cartelli e fiaccole, consci che di una biblica catarsi ci fosse bisogno, che si dovesse finalmente traghettare, traversando il Mar Rosso, dall’inferno della corruzione alla terra promessa dell’onestà. Sospinti, occorre riconoscerlo, da una informazione che non aveva esitato a mostrare più di un entusiasmo per quella vivacità moralizzatrice e soprattutto per l’aumento delle copie. “Mai più come prima”, s’era scritto, proprio come s’è risentito al primo lockdown.

 Sul fronte opposto, il principale imputato, Bettino Craxi, rispose in Parlamento con il memorabile discorso di luglio, con posa tribunizia d’alta retorica: “Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica…”, mentre, con un geniale stratagemma, le tangenti erano diventate “risorse aggiuntive”. Cogliendo in realtà una verità: la politica costa. Il resto lo ricordiamo, visto e ascoltato decine e decine di volte in tv. Repubblica, il giornale, sintetizzò: “Todos ladrones”, ispirandosi al Todos Caballeros di Carlo V. Saltando i distinguo, al contrario di quanto un raffinato politico avrebbe dovuto, raccogliendo l’umore popolare, sposando slogan presenti e futuri, Craxi aveva siglato l’epopea e il disastro della nostra politica, come peraltro le elezioni del 5 e 6 aprile avevano anticipato con la Dc sotto il trenta per cento la prima volta nella sua vita, con il Pds ex Pci al sedici, i socialisti al tredici e la Lega che avanzava: “Bossi è il grande vincitore”. La rabbia esorbitante contro Ladrones e Caballeros aveva trovato il primo imprenditore politico.  Norberto Bobbio l’aveva previsto: “Le prossime elezioni avranno un’importanza decisiva perché la degradazione non solo economica ma anche morale del paese è sotto gli occhi di tutti”. Neppure lui, il grande saggio, aveva immaginato però che sarebbe andata via via peggio. Sta di fatto che dopo quel voto di giugno Bettino Craxi avrebbe rinunciato a candidarsi alla presidenza del consiglio, ma non avrebbe rinunciato a candidare l’amico fedele, il consigliere fidato, uno di quelli che alla maniera di Andreotti “sanno tutto” di questo Paese, e cioè Giuliano Amato, proprio il Dottor Sottile che abbiamo ritrovato poche settimane fa pronto a salire al Quirinale. Non corrisposto, lo ritroviamo comunque alla presidenza della Corte Costituzionale. Non è poco. 

Allora, in maggio, per la presidenza della Repubblica si era messo in corsa Arnaldo Forlani, la F del Caf, del patto del camper, tra Craxi, Andreotti e lo stesso Forlani, e ci mancò poco (29 voti) perché ci riuscisse. Invece ci riuscì alla fine, a larga maggioranza, Oscar Luigi Scalfaro, un galantuomo. I grandi elettori, anche allora, si resero a un certo punto conto che non avrebbero potuto tirare troppo oltre la corda. La storia, come si vede, si ripete, qualche volta in farsa, per citare Marx, qualche volta per il meglio.

Mentre il pool dava la caccia ai tangentisti, all’opera come si scoprì dall’Alpi alle piramidi, due magistrati antimafia vennero assassinati in attentati che avevano dello spettacolo cinematografico, esemplari in questo, un clamoroso avvertimento: esplosioni tremende, effetti devastanti, crateri nelle strade e tanti morti. I magistrati erano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Morirono con loro anche la compagna del primo e le scorte. Il loro assassinio, a maggio Falcone, in luglio Borsellino (non dimenticando le stragi, un anno dopo, di via Palestro a Milano o dei Georgofili a Firenze), avrebbe dovuto segnare una svolta come una svolta avrebbero dovuto favorirla l’arresto di Chiesa e le altre denunce. Una svolta nel primo caso si verificò: nel senso che la criminalità organizzata, girato il film della sua potenza, cominciò a capire che non era il caso di mettere a ferro e a fuoco i palazzi di giustizia, che era più comodo infiltrarsi, studiare bene i meccanismi del commercio e quelli della finanza, che si poteva controllare la politica senza spargere sangue, che si poteva investire e ripulire il denaro sporco. La corruzione svelata dei partiti continuava ad indicare la strada.

Se si volesse continuare nel racconto delle inchieste, delle tangenti, degli avvisi di garanzia, degli interrogatori, delle manette, dei rinvii a giudizio, dei proscioglimenti, delle condanne, delle prescrizioni, eccetera eccetera, si dovrebbe scrivere un libro e in effetti di libri se non sono scritti tanti, tra i primi quelli di Marco Travaglio, campione della giustizia, del ritaglio dei giornali e della relativa catalogazione e archiviazione.

Dobbiamo fermarci invece qui perché questa è solo una sommaria memoria. Però non possiamo non ricordare che trent’anni fa il Milan vinse il secondo scudetto (dopo quello della stagione 1987-88) dell’era Berlusconi. Nessun timore. La storia in questo caso non si ripeterà. Però è bene ricordare che da quello scudetto (dopo due Coppe dei Campioni) con Van Basten, Rijkard, Gullit, prese le mosse la corsa dentro lo stadio della politica del presidente vittorioso (nel corso di un confronto politico si presentò proprio così: io sono un imprenditore di successo e ho vinto un tot di campionati e di coppe). Chi poteva far meglio di lui? Nessuno, la risposta che si diede, imprenditore tra i media e tra i mattoni, diventato per salvare se stesso imprenditore politico della rabbia antipartiti, fomentata nel paese, imprenditore ben più forte, ben più attrezzato, ben più persuasivo, del suo predecessore, Umberto Bossi. Infatti ci toccò di assaporare il privilegio del suo governo e continuiamo ad assaporare la sua presenza, ora che si è fatto moderato rispetto ai suoi alleati.

Così trent’anni dopo l’approdo di Mario Chiesa, arrogante e rampante mariuolo “socialista” (che c’entra il socialismo con tutto questo?) nelle celle di San Vittore,  alla fine di questa storia, ci ritroviamo con un sistema dei partiti allo sfascio, salvo qualche timido tentativo di reagire, di tener dritta la barra dell’onestà e della giustizia o perlomeno del buonsenso, con un partito di maggioranza nato dalle grida di un comico sotto inchiesta giudiziaria, strillato in nome della pulizia, della moralità e delle manette, afflitto prostrato immiserito dalla sua stessa insipienza culturale e progettuale oltre che dai più scontati sotterfugi di potere, con un gruppo vociante di nostalgici di passati regimi, con un ex movimento federalista piegato alla più banale demagogia, all’inseguimento degli interessi delle più svariate lobbies, con altri gruppi e gruppetti che s’arrabattano per infilarsi nelle sale dei bottoni… Il senso di responsabilità è rimasto tra le virtù di pochi e le vicende del Covid l’hanno messo duramente alla prova.  

In merito alla corruzione, che il pool avrebbe voluto estirpare, siamo in un’altra fase della antropologica mutazione, prevista da Pasolini, mutazione che prevede ormai la rassegnazione, l’accettazione, il silenzio. O forse no: riscoprendo tracce di un millenario dna, s’è riscoperto pure che si può far finta di niente, che si può sorvolare, che si può condividere e che magari, con un po’ di fortuna e di furbizia, si può anche profittare. Una maggioranza di governo che nel 2022, mentre ovunque si inneggia alle più raffinate tecnologie informatiche, riesce a bocciare la proposta di abbassare la disponibilità di pagamenti in contanti sotto la soglia dei mille euro è la dimostrazione di un fallimento morale, prima ancora che politico.

Oreste Pivetta

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