23 novembre 2021

MAFIA IN LOMBARDIA

Una classe politica che non va oltre il proprio ombelico


dalla chiesa

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La scorsa settimana è arrivata l’ennesima frustata. Un’inchiesta giudiziaria che suona come un nuovo avvertimento per la Lombardia: ma davvero siete convinti che la mafia sia qualcosa che non vi riguarda? Che sia un “minus”, una questione di nicchia rispetto all’urbanistica, ai trasporti, all’economia, alla sanità? Perché siete così renitenti a capire che è in realtà questione trasversale a tutto il resto? Criminale, certo, ma proprio per questo ancora più grave nella sua trasversalità?

Come sanno i pochi lettori che non sbuffano vedendo la parola “mafia” (poiché “altri sono i temi che contano”), si è dispiegata tra Milano e Reggio Calabria un’operazione di magistratura, Polizia di Stato e Guardia di Finanza che, passando anche per la Toscana, ha portato alla luce quindici anni di storia di ‘ndrangheta in Lombardia con riferimento alle province di Como e Varese, ma anche a quella di Milano. E che ha dimostrato plasticamente la vocazione imprenditoriale dei clan calabresi e la loro capacità di compenetrazione con il tessuto economico legale della Lombardia, tracciando una linea che va da Gioia Tauro al nord-ovest della regione più ricca d’Italia.

Ne è uscito illuminato a giorno un matrimonio in più fasi: dai reati di usura, estorsione, corruzione e frode subiti in silenzio da imprenditori lombardi fino alla acquisizione a pieno titolo delle loro imprese da parte dei capitali accumulati con il traffico di droga e altri delitti.

Non è la prima volta che le indagini antimafia ci consegnano questi spaccati sociali. Diciamo che è la ventesima; o forse la trentesima. E aggiungiamo che inutilmente, da almeno dieci anni, gli investigatori esortano gli imprenditori e i professionisti a parlare, a dare alle pressioni mafiose una risposta collettiva, almeno pari a quella venuta a Palermo dai commercianti di “Addio Pizzo” spiegando che quel che sulle prime appare una scorciatoia di salvezza si dimostra neanche troppo alla lunga una strada di rovina. 

Come inutilmente gli analisti cercano di spiegare all’opinione pubblica lombarda quale livello di penetrazione e di radicamento sia stato ormai conseguito nella regione dal fenomeno mafioso. E di chiarire che se il fenomeno non divampa in forme eclatanti, esso condiziona però la vita collettiva grazie a una sapiente strategia di violenza a bassa intensità (la bomba contro la ruspa, l’incendio del negozio, la devastazione dell’auto del consigliere comunale), che magari nulla dice alla grande stampa o all’agenda politica nazionale ma molto, moltissimo dice alle singole persone e categorie locali interessate. Strana contraddizione, questa. 

Di una regione che, ricerche alla mano, ha il più forte movimento antimafia giovanile d’Italia, alla pari con quello siciliano, e che vede invece il mondo adulto e soprattutto il suo nucleo centrale, portatore dello “spirito d’impresa”, farsi spesso sostanza retrattile e gelatinosa. Forse non sarebbe male se chi sempre ha tessuto l’elogio dello spirito pratico lombardo contrapponendolo alle ubbie filosofico-giuridiche della Magna Grecia, riscoprisse il valore della prassi. Ossia vedesse quanto accade sul campo, non rimuovesse i dati di realtà, non falsificasse i bilanci storico-sociali.

Di fatto oggi la Lombardia è incuneata in un triangolo che non lascia molto scampo alle fantasie.

a) E’ la regione che in numeri assoluti (fondamentali in questi casi) ha subito l’impatto più duro del Covid, e verosimilmente beneficerà dei maggiori investimenti di ripresa e resilienza, ai quali si aggiungeranno i finanziamenti in arrivo per le Olimpiadi invernali del 2026.

b) E’ la regione che pesa per più del 20 per cento sul Pil nazionale e che quindi, anche per il surplus di investimenti in arrivo ma non solo per quello, costituisce il boccone più ghiotto per le imprese mafiose: nessun’altra regione può promettere egual “bottino” ai capitali mafiosi, specie per l’effetto di sfibramento prodotto sulla sua economia dalla gelata caduta su industria, commercio e turismo.

c) E’ infine la seconda regione di ‘ndrangheta d’Italia, subito dopo la Calabria, contando sul suo territorio almeno 25 locali dell’organizzazione mafiosa, laddove le “locali” costituiscono le strutture di base che per numero di affiliati consentono di operare in relativa autonomia su uno specifico territorio, un po’ come le sezioni di un partito politico.

Che cosa potrà accadere se all’interno di questo triangolo la regione continuerà a essere guidata da una classe dirigente insensibile al problema mafioso, o convinta di poterlo affrontare con alcune dichiarazioni periodiche o con iniziative innocue come i numeri verdi o i centri di ascolto antiusura, di cui una ricerca dell’Università degli Studi di Milano per Regione Lombardia ha dimostrato tutta l’evanescenza?

Sarebbe improprio dire che è arrivato il momento del cambio di passo, perché quel momento in realtà è arrivato da tempo. Diciamo allora che in certe aree, territoriali ed economiche, della regione forse il tempo per invertire la tendenza è prossimo a finire. Ma chissà se qualcuno ci crederà.


Nando Dalla Chiesa

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