17 maggio 2022

LE RAGIONI DELL’UCCISIONE DI UN SERVITORE DELLO STATO

A trent’anni dalla strage di Capaci


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Il 23 maggio ricorrerà il trentesimo anniversario della strage di Capaci. Per non dimenticare, riteniamo doveroso riportare il racconto – ad opera del magistrato in pensione Maria Rosaria Sodano – delle drammatiche vicende che portarono all’uccisione del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, oltre al ferimento di 23 persone (F.V.).

L’omicidio del giudice Giovanni Falcone giunse a compimento di un attentato di stampo terroristico – mafioso compiuto da cosa nostra il 23 maggio 1992 nei pressi di Capaci (sul territorio di Isola delle Femmine) con una carica composta da tritolo, RDX e nitrato d’ammonio. Gli attentatori fecero esplodere un tratto dell’autostrada A29, alle ore 17:57, mentre vi transitava sopra il corteo della scorta con a bordo il giudice, la moglie, anch’ella magistrato Francesca Morvillo, e gli agenti di Polizia, sistemati in tre Fiat Croma blindate. Oltre al giudice, morirono altre quattro persone: la moglie e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Vi furono 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza.

L’uccisione di Falcone venne decisa nel corso di alcune riunioni della “Commissione interprovinciale” di cosa nostra, avvenute nei pressi di Enna tra il settembre-dicembre 1991, e presiedute da Salvatore Riina, nelle quali vennero individuati anche altri obiettivi da colpire. Nello stesso periodo, avvenne anche un’altra riunione nei pressi di Castelvetrano (a cui parteciparono Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Mariano Agate, Salvatore Biondino e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano), in cui vennero organizzati gli attentati contro il giudice Falcone, l’allora ministro Claudio Martelli e il presentatore televisivo Maurizio Costanzo.

In seguito alla sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli del Maxiprocesso di Palermo (30 gennaio 1992), si tennero  due diverse riunioni, sempre convocate da Riina, in cui si decise di dare inizio agli attentati: per queste ragioni, nel febbraio 1992 venne inviato a Roma un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani (Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella, Francesco Geraci), che avrebbe dovuto uccidere Falcone, Martelli o in alternativa Costanzo, facendo uso di armi da fuoco. Qualche tempo dopo però Riina li richiamò in Sicilia perché voleva che l’attentato a Falcone fosse eseguito sull’isola adoperando l’esplosivo. Nel corso delle riunioni della “Commissione provinciale”, fu scelto Giovanni Brusca come coordinatore dei dettagli delle operazioni. I preparativi furono compiuti tra aprile e maggio del 1992. Salvatore Biondino, Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi (capi dei “mandamenti” di San Lorenzo, della Noce e di Porta Nuova) compirono alcuni sopralluoghi presso l’autostrada A29, nella zona di Capaci, per individuare un luogo adatto per la realizzazione dell’attentato e per gli appostamenti. 

Nello stesso periodo avvennero riunioni organizzative nei pressi di Altofonte (a cui parteciparono Giovanni Brusca, Antonino Gioè, Gioacchino La Barbera, Pietro Rampulla, Santino Di Matteo, Leoluca Bagarella); i componenti del gruppo di fuoco, dopo avere ricevuto parte dell’esplosivo da Giuseppe Agrigento (mafioso di San Cipirello) effettuarono il travaso di detto materiale in 13 bidoncini e li portarono  nella villetta di Antonino Troìa (sottocapo della Famiglia di Capaci], dove avvenne un’altra riunione (a cui parteciparono anche Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino e Salvatore Biondo), nel corso della quale avvenne il travaso dell’altra parte di esplosivo (tritolo e T4) procurata da Biondino e da Giuseppe Graviano (capo della Famiglia di Brancaccio).

Negli stessi giorni Brusca, La Barbera, Di Matteo, Ferrante, Troìa, Biondino e Rampulla provarono varie volte il funzionamento dei congegni elettrici che erano stati procurati da Rampulla stesso e dovevano servire per l’esplosione. Effettuarono varie prove di velocità, e collocarono sul tratto autostradale antecedente il punto dell’esplosione un frigorifero e dei segni di vernice rossa, che al passaggio del corteo servivano a segnalare il momento in cui azionare il radiocomando. Tagliarono inoltre i rami degli alberi che impedivano la visuale dell’autostrada. La sera dell’8 maggio Brusca, La Barbera, Gioè, Troia e Rampulla provvidero a sistemare con uno skateboard i tredici bidoncini (caricati in tutto con circa 400 kg di miscela esplosiva) nel cunicolo di drenaggio sotto l’autostrada, nel tratto dello svincolo di Capaci, mentre nelle vicinanze Bagarella, Biondo, Biondino e Battaglia svolgevano le funzioni di sentinelle.

Nella metà di maggio Raffaele Ganci, i figli Domenico e Calogero e il nipote Antonino Galliano si occuparono di controllare i movimenti delle due Fiat Croma e della Lancia Thema blindate che sostavano sotto casa di Falcone a Palermo per capire quando il giudice sarebbe tornato da Roma. Nessuna verità definitiva fu invece acquisita “in sede processuale sull’identità della fonte che aveva comunicato alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l’arrivo a Palermo per l’ora stabilita”.

Il 23 maggio Domenico Ganci avvertì telefonicamente prima Ferrante e poi La Barbera che le Fiat Croma erano partite ed avevano imboccato l’autostrada in direzione dell’aeroporto di Punta Raisi per andare a prendere Falcone. Ferrante e Biondo (che erano appostati in auto nei pressi dell’aeroporto) videro uscire il corteo delle blindate dall’aeroporto e avvertirono a loro volta La Barbera che il giudice Falcone era effettivamente arrivato. La Barbera allora si spostò con la sua auto in una strada parallela alla corsia dell’autostrada A29 e seguì il corteo blindato, restando in contatto telefonico per 3-4 minuti con Gioè, che era appostato con Brusca su una collinetta sopra Capaci, dalla quale si vedeva bene il tratto autostradale interessato. Alla vista del corteo delle blindate, Gioè diede l’ok a Brusca, che però ebbe un attimo di esitazione, avendo notato le auto di scorta rallentare a vista d’occhio: Giuseppe Costanza, autista giudiziario che era nella vettura con Falcone e la moglie, gli stava ricordando che avrebbe dovuto restituirgli le chiavi dell’auto, allora Falcone le  aveva rimosse dal cruscotto cercando di dargliele così provocando un rallentamento avvertito dallo stesso  Brusca  che riuscì comunque ad attivare in tempo il radiocomando.

 La prima blindata del corteo, la Croma marrone, venne investita in pieno dall’esplosione e sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi ad alcune decine di metri di distanza, uccidendo sul colpo gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. La seconda auto, la Croma bianca guidata da Falcone, si schiantò contro il muro di asfalto e detriti improvvisamente innalzatisi per via dello scoppio, proiettando violentemente il giudice e la moglie, che non indossavano le cinture di sicurezza, contro il parabrezza.

Gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che viaggiavano nella terza auto (la Croma azzurra) erano feriti ma vivi: dopo qualche momento di shock, riuscirono ad aprire le portiere dell’auto ed una volta usciti si schierarono a protezione della Croma bianca, temendo che i sicari sarebbero giunti sul posto per dare il “colpo di grazia”. A giungere sul luogo furono invece vari abitanti delle zone limitrofe, intenzionati a prestare i primi soccorsi; tra questi vi fu anche il fotografo Antonio Vassallo, che però abbandonò il luogo dopo che l’agente Corbo lo scambiò erroneamente per uno dei sicari. Venne subito estratto dall’auto Costanza, che si trovava sul sedile posteriore vivo in stato di incoscienza; anche il giudice Falcone e Francesca Morvillo erano ancora vivi e coscienti, ma versavano in gravi condizioni: grazie all’aiuto degli abitanti, si riuscì a tirare fuori la moglie del giudice dal finestrino. Per liberare Falcone dalle lamiere accartocciate fu invece necessario attendere l’arrivo dei Vigili del Fuoco. Giovanni Falcone e Francesca Morvillo morirono in ospedale nella serata dello stesso giorno, per le gravi emorragie interne riportate, il primo alle 19.05 tra le braccia di Paolo Borsellino, la seconda poco dopo le 22 durante un’operazione chirurgica.

Giovanni Falcone era da tempo nel mirino di Cosa Nostra. Tre anni prima era accaduto il fallito attentato dell’Addaura a Mondello conclusosi con il sequestro degli esplosivi e giudicato dai più come un fatto privo di pericolosità reale per la vita e del giudice e di tutti quelli che in quel periodo erano ospiti di Falcone (il giudice istruttore Claudio Lehmann e il pubblico ministero sottocenerino Carla Del Ponte; il commissario di polizia Clemente Gioia). In realtà, a detta del Collega Luca Tescarzoli. “L’attentato era diretto a uccidere perché l’ordigno era nelle condizioni di esplodere e aveva un raggio di letalità pari a circa 60 metri. Fu preceduto da una raffinata intossicazione dell’informazione finalizzata al discredito e all’umiliazione di Giovanni Falcone, con la falsa accusa, contenuta in numerose lettere anonime, di aver impiegato il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno per catturare latitanti e per eliminare appartenenti al gruppo dei “corleonesi” e con la diffusione della falsa notizia di un incontro a Palermo di Tommaso Buscetta con il barone Antonino D’Onofrio. Un’attività preparatoria capace di giustificare dinanzi all’opinione pubblica, l’uccisione del magistrato, di delegittimare i collaboratori di giustizia, che costituivano gli elementi probatori fondamentali del processo “maxi uno” – istruito dallo stesso Falcone, vero e proprio elemento propulsivo del pool guidato da Antonino Caponnetto – di scardinare il sistema antimafia con le sue proiezioni internazionali. Falcone doveva essere ucciso per motivi di vendetta, ma non solo”.

Si è pertanto appurato che Giovanni Falcone fu ucciso per tre differenti ragioni. Innanzitutto, Il sentimento di vendetta che animava i vertici di cosa nostra per l’attività compiuta a Palermo quale giudice istruttore allorché aveva contribuito a istruire il maxiprocesso e a Roma, quale Direttore generale degli Affari Penali, a far data dal febbraio 1991, per le attività di carattere legislativo e amministrativo fino a quel momento espletate. Fra queste, le misure per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciale e di organi di altri enti locali conseguenti a infiltrazioni mafiose; l’istituzione della Procura nazionale antimafia (altrimenti detta DDA), l’istituzione del fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive; le norme sull’ineleggibilità di coloro che avevano riportato condanne; le limitazioni alla possibilità per i condannati di delitti di criminalità mafiosa di usufruire della liberazione condizionale. In secondo luogo cosa nostra aveva ben compreso che Giovanni Falcone sarebbe stato un serissimo pericolo ove fosse stato nominato Procuratore Nazionale Antimafia. Infine, alcuni segnali che il giudice aveva mandato circa l’avvenuta quotazione in borsa della mafia aveva fatto sorgere il timore che Falcone sapesse molto anche sulle infiltrazioni mafiose nel contesto produttivo nazionale, con particolare riguardo alle vicende del gruppo Ferruzzi. Infine, cosa nostra aveva deciso di avviare con l’uccisione di Falcone una stagione terroristica per realizzare l’obiettivo sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina: «bisogna fare la guerra prima di fare la pace»

 Furono perciò attuate nell’arco di appena 14 mesi  dal 23 maggio ’92 al 28 luglio ’93 sette stragi (la strage di Capaci e di via Mariano d’Amelio nel quale morì l’amico più fidato di Giovanni Falcone, il giudice Paolo Borsellino; l’attentato a Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993, due giorni dopo l’insediamento del governo Ciampi, in cui erano inseriti per la prima volta in Italia, esponenti del PDS, l’ex partito comunista; la strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993; le tre stragi eseguite nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, allorché esplosero, quasi simultaneamente, tre autobombe: la prima a Milano, in via Palestro, che provocò cinque morti e una decina di feriti e distrusse il padiglione di arte contemporanea; la seconda, a Roma, danneggiò la basilica di San Giovanni in Laterano e il palazzo lateranense e provocò 14 feriti; la terza, ancora a Roma, procurò il ferimento di tre persone e gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro. Una strage allo stadio Olimpico di Roma, programmata per il gennaio 23 gennaio 94, con lo scopo di eliminare, con un’autobomba, decine di carabinieri, in servizio di ordine pubblico, non si verificò per un malfunzionamento del telecomando.  Vi furono i Due omicidi di Salvo Lima il 12 marzo 1992 e Ignazio Salvo il 17 settembre 1992 e lo stranissimo suicidio a Milano di Raul Gardini il 23 luglio 1993 qualche ora prima di essere interrogato da Antonio di Pietro.

Maria Rosaria Sodano

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  1. alessandra nanneiMolto, molto interessante. Ci sono anche indicazioni precise sul gruppo Ferruzzi? Ho letto "Il bagnino e i samurai" (che mi permetto di consigliare a chi non lo conosca), ma lì non ci sono notizie sulla mafia, anche se ai tempi correvano voci.
    18 maggio 2022 • 10:45Rispondi
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