7 aprile 2021

PANDEMIE: COME EVITARE DI GESTIRLE

L'inerzia della politica può fare più morti di una pandemia


Molti credono che il terribile tributo imposto dal nuovo coronavirus sia la prova dell’impotenza dell’umanità di fronte alla forza della natura. In realtà, il 2020 ha dimostrato che l’umanità è tutt’altro che impotente. Le epidemie non sono più forze naturali incontrollabili. La scienza le ha trasformate in sfide gestibili. Perché, allora, ci sono stati tanti morti e tanta sofferenza? La colpa è di decisioni politiche sbagliate”. 1 

tremolada

Apre così un suo intervento sul Financial Times Yuval Noah Harari, storico israeliano divenuto celebre con il bestseller Sapiens. Non si nasconde dietro valutazioni relativiste, non si perde nell’oceano di opinioni discordanti degli ultimi mesi. Ci rimette, come solo chi ha il senso del passato sa fare, coi piedi ben piantati a terra: solo qualche secolo fa,quando la peste nera uccise milioni di persone, […] era chiaramente al di là del potere dei governanti fermare l’epidemia, quindi nessuno li accusava di aver fallito1. Oggi invece, abbiamo gli strumenti scientifici per fermare la pandemia.  

Se vi soffermate a pensarci, sembra quasi un miracolo che, un secolo dopo l’ultima pandemia globale (l’influenza spagnola del 1918), contro la quale né la scienza né la politica poterono fare alcunché, oggi qualunque cittadino informato possa dare per scontato che si stia lavorando verso una graduale sparizione del virus. La genomica, scienza che ha permesso di identificare il genoma di Sars-Cov2 e di sviluppare tamponi e vaccini efficaci, nasce intorno al 1980. Il World Wide Web, antenato di quello che oggi chiamiamo semplicemente “Internet”, arriva una decina d’anni dopo. In breve: se il Covid-19 fosse comparso più di trent’anni fa, non avremmo avuto nessun’arma efficace con cui combatterlo 

Il riassuntino qui sopra – sottolinea Zeynep Tufecki, sociologa al Berkman Klein center for internet and society di Harvard -, se ben sfruttato da mezzi d’informazione e autorità sanitarie, avrebbe potuto generare grande ottimismo nella popolazione. Invece, è successo il contrario:Da quando sono stati messi a punto i vaccini, al posto di un equilibrato ottimismo, sono stati rovesciati sull’opinione pubblica i timori per le nuove varianti del virus, i dibattiti fuorvianti sull’inferiorità di alcuni prodotti rispetto ad altri e i lunghi elenchi di cose che chi è vaccinato non può ancora fare2. Risultato? Le persone sono meno propense a vaccinarsi, meno propense a credere che questa pandemia possa finire, meno propense ad impegnarsi perché questo accada.  

A questo punto potrei aver già fatto arrabbiare qualche lettore: quindi, vi chiederete, è colpa nostra? Dovevamo essere più forti, resistere, non demoralizzarci al primo giornale con titoli al limite dell’antivaccinismo? Forse. O, forse, dovevano essere le classi politiche dei nostri stati, quelle persone cui noi paghiamo uno stipendio con le tasse proprio per non essere soli di fronte a situazioni gravissime come questa, a prendere decisioni diverse.  

Due fattori hanno determinato la scelta, ormai palesemente errata, di seminare incertezza e pessimismo piuttosto che un cauto ottimismo: la comunicazione paternalistica e il mito della responsabilità individuale 

Tufecki cita, a proposito della prima, una teoria sociologica entrata nel pubblico dominio grazie a coloro che criticavano l’introduzione dell’obbligo di indossare la cintura di sicurezza in automobile: la teoria della compensazione del rischio. Il ragionamento è più o meno questo: se sono obbligata ad indossare la cintura, mi sentirò più protetta, percepirò un minore rischio e adatterò il mio comportamento abbassando il livello d’attenzione. Viceversa, senza cintura percepirò un rischio maggiore, cosa che mi porterà a fare più attenzione mentre guido. Nonostante i grandi benefici di alcune misure di sicurezza come quella appena citata, tale teoria è rimasta viva e vegeta, tanto che sembra che i governi di (quasi) tutto il mondo l’abbiano presa a modello per la comunicazione nella lotta contro il coronavirus.  

Invece che spiegare ai cittadini perché alcuni comportamenti sono più pericolosi di altri, invece di concentrarsi su una comunicazione efficace che indicasse le gradazioni di rischio di ogni situazione quotidiana, hanno scelto di comportarsi come padri apprensivi: regole ferree, un falso senso di precisione (pensiamo alle ridicole regolamentazioni per il numero di parenti che potevano sedersi alla stessa tavola per Natale in Italia, più dettagliate e incomprensibili di un libretto di istruzioni per i mobili Ikea) e un atteggiamento incoerente, che oscilla giorno per giorno tra una sicurezza esagerata e un’indecisione preoccupante (cfr il ritiro di AstraZeneca, ora Vaxzevria).  

E ciò che avete appena letto non è una mia opinione polemica: uno studio scientifico pubblicato su Nature nel novembre 2020, in cui nove ricercatori stilano una classifica delle misure più efficaci nel mitigare gli effetti negativi della pandemia, conferma che educare il pubblico e comunicare con esso attivamente” ha avuto lo stesso impatto, nei primi mesi della pandemia, di “una più massiccia fornitura di mascherine”, “la sospensione dei grandi eventi” e “la chiusura dei confini3. Riposandosi nell’idea che sia sempre meglio esagerare con la prudenza, così da non poter essere accusati d’aver preso la cosa alla leggera, gran parte dei governi occidentali hanno assunto toni e comportamenti paternalistici nei confronti della popolazione, sgridandola come si fa con un bambino capriccioso quando le cose andavano male.  

Se la cosa non vi convince, riascoltate il discorso del Presidente del Consiglio Draghi al Senato sulla questione dei vaccini: Mentre alcune regioni seguono le disposizioni del ministro della Salute, altre trascurano i loro anziani, in favore di gruppi che vantano priorità probabilmente in base a qualche loro forza contrattuale. Dobbiamo essere uniti, dobbiamo essere uniti nell’uscita dalla pandemia come lo siamo stati soffrendo, insieme, nei mesi precedenti4. Sento echi dei discorsi del preside del mio vecchio liceo quando le autogestioni sfuggivano di mano rimbombarmi nelle orecchie, e non credo sia un caso.  

L’altro fattore che ha reso inefficace, anzi dannosa, la comunicazione tra le autorità e il pubblico durante quest’anno difficile è stato il mito della responsabilità individuale. In una forma o nell’altra, lo conosciamo tutti: si ripresenta ogni anno alla pubblicazione dei tassi di disoccupazione (il lavoro c’è, sono i ragazzi che son svogliati e non se lo cercano), del tasso di povertà relativo ed assoluto (uscire dalla miseria è possibile con un po’ di forza di volontà), striscia furtivo nelle scuole e nelle università (che c’entra che il ragazzo viene da una famiglia povera, ha le stesse possibilità di tutti gli altri e se viene bocciato la colpa è sua).  

La pandemia poteva essere– e per alcuni forse lo è stata davvero – una splendida possibilità per imparare che la responsabilità individuale è, per l’appunto, un mito: come sottolinea sempre Tufecki, dati alla mano, la pandemia ha avuto conseguenze molto più pesanti per le persone che sono parte di una minoranza etnica e per i poveri2. E, senza scendere in dettagli, ci ricordiamo tutti le assurde multe ai senzatetto nei primi mesi di pandemia perché avevano violato l’ordine di stare a casa – quale casa? Questo discorso non riguarda solo le situazioni di estremo disagio o povertà, ma anche più banalmente la messa a norma dei luoghi di lavoro, ancora estremamente carente dopo 13 mesi perché, ancora una volta, culturalmente è l’individuo a doversi tutelare e non il suo datore di lavoro a dovergli garantire tale tutela.  

E’ una narrazione tossica, perché porta le persone a dividersi nettamente in due categorie: chi, sfinito dall’impossibilità di rispettare tutte le norme alla lettera – perché vive in una famiglia numerosa, perché è una lavoratrice essenziale, perché dopo mesi di isolamento deve scegliere tra il rischio di cadere in depressione e la violazione delle regole -, finisce per cedere su tutto,e chi, sfinito dall’aver rispettato per un anno regole impossibili, riversa tutta la responsabilità del virus sugli altri e urla isterico: “Tornate a casa!” dal balcone ai bambini che giocano sul marciapiede.

Nessuna di queste due categorie punta il dito contro i veri responsabili, nel nostro caso italiano comodamente seduti su rosse poltroncine di velluto, del disastro che abbiamo vissuto e che stiamo ancora vivendo.  

Elisa Tremolada

 

1 “Tre lezioni per il futuro”, Yuval Noah Harari, Financial Times, Regno Unito, tradotto da e pubblicato su Internazionale n. 1400 del 12 marzo 2021.  

2 “Gli errori che hanno aiutato il virus”, Zeynep Tufecki, The Atlantic, Stati Uniti, tradotto da e pubblicato su Internazionale n. 1400 del 12 marzo 2021.  

3 Haug et al., “Ranking the effectiveness of worldwide COVID-19 government interventions”. Nature Human Behaviour volume 4, 1303–1312(2020). Gli indicatori citati sono stati analizzati con quattro diversi metodi statistici, che hanno prodotto risultati molto simili; le cifre ottenute si riferiscono a dati di Marzo – Aprile 2020; l’impatto positivo è misurato in termini di riduzione di Rt. Traduzione mia, articolo disponibile a questo link 

4 Trascrizione del video disponibile sul sito di Repubblica a questo link 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Tutti i campi sono obbligatori.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.


Sullo stesso tema


18 settembre 2021

TRA VOTO E NON VOTO

Oreste Pivetta



13 settembre 2021

LE SFIDE CONTEMPORANEE MILANESI

Gianluca Gennai



12 settembre 2021

PEREGRINAZIONE NELL’ARCIPELAGO

Giorgio Goggi



24 maggio 2021

LO SCANDALO DEL QUARTIERE SAN SIRO

Giacomo Manfredi






21 maggio 2021

GIORGIO GOGGI CANDIDATO SINDACO

Giorgio Goggi


Ultimi commenti