7 luglio 2020
IL FUTURO DI MILANO LO SI FA SULLA FIFTH AVENUE
Un modello subalterno di cultura “urbanistica”
7 luglio 2020
Un modello subalterno di cultura “urbanistica”
Ho cominciato a interessarmi della complessità di Milano alla fine anni ’80 quando, di fronte al massacro dei marciapiedi dovuti all’arrivo di nuove infrastrutture tecnologiche, con un consorzio di Imprese m’impegnai nella progettazione di cunicoli urbani multifunzionali. Grande sponsor del progetto fu Carlo Tognoli, allora sindaco di Milano e poi dall’87 al 92 Ministro per i Problemi delle Aree urbane. Il progetto si arenò perché il Governo Amato nel 1992 di fronte alla crisi economica decretò il famoso prelievo sui conti correnti bancari e tagliò tutti i fondi alla ricerca e anche quelli destinati alla sperimentazione del nostro progetto. De profundis.
In quell’occasione presi contatto con due enti, uno a Martigny in Svizzera, il Centre de Recherche Energetiques et Municipales (CREM) e l’Institut du Genie Civile Urbain Lyonnai (INGUL) accomunati dal tipo di approccio che avevano sui problemi della città come sistema complesso e iniziavano allora a usare un temine – Urbistica – per indicare questo nuovo modo e quasi una nuova disciplina.
Quest’approccio fu allora tipico dei Paesi di lingua francese: Canton Ginevra, Francia, Quebec e per finire Algeria.
Gli aspetti tecnologici erano prevalenti e negli incontri che avemmo anche in seguito ci domandammo se questa strategia potesse diventare più olistica. Ne concludemmo che gli strumenti informatici di allora avrebbero fatto fatica ad affrontare un problema che richiedeva la progettazione di sistemi tanto complessi. Non si parlava ancora di intelligenza artificiale né di intelligenza aumentata!
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti dell’informatica e delle sue applicazioni possibili nella gestione delle città ma l’urbanistica è rimasta quella disciplina monca che conosciamo e l’urbistica non ha mai preso piede.
Prima di andare avanti vorrei fare chiarezza su due termini che pullulano nel dibattito sulla città: smart e resilienza.
Il significato di “smart” in Italia è quello di “intelligente”, che resta ambiguo:
“smart ‹smàat› agg., ingl. – Dei varî sign. che l’agg. ha in inglese («capace», «attivo», «brillante», «alla moda», ecc.), in ital. è soprattutto noto e talora usato quello di «raffinato, elegante» (una ragazza, una compagnia, giovani smart), anche nella locuz. smart-set (‹… sèt›), per indicare, spesso ironicamente, un ambiente o un gruppo di persone molto raffinato ed elegante, la cosiddetta «alta società».”
Quest’ambiguità è pericolosa.
Quanto a “resilienza”, il vocabolo deriva dalla fisica e indica la capacità di un materiale di riprendere il suo aspetto e le sue caratteristiche fisiche originarie dopo un “accidente” che l’ha colpito. L’esempio più chiaro è quello dell’acciaio armonico di cui son fatte le molle: dopo che comprimete una molla e la lasciate andare essa riassume il suo aspetto originario.
Il termine resilienza è usato anche molto in psicologia per indicare la capacità di un individuo di ritornare allo stato della sua normalità dopo uno shock psicologico.
Quello che mi preme sottolineare è che la resilienza indica chiaramente il ritorno allo stato “quo ante” e dunque per definizione esclude il tornare a uno stato diverso. Oggi quando si parla di resilienza di una città, si parla non solo di ritorno a una situazione ante shock – un fiume esonda e lo si riporta nell’alveo, una pandemia è risolta – ma l’avviarsi verso una situazione futura “desiderata”.
Il nocciolo della questione è qui: desiderata da chi?
Questa è la domanda che non si è posta la Fondazione Rockefeller* quando ha varato l’operazione 100 Resilient Cities Program e alla quale ha aderito anche Milano che, a valle di un convegno di presentazione in Sala Alessi nel 2017 – al quale ho partecipato -, ha nominato Piero Pelizzaro, Chief Resilience Officer dal Comune di Milano. (che ne è?) Per la completa documentazione sul convegno clicca qui.
Alla domanda “desiderata da chi” in questo caso c’è una risposta semplice: rappresenta la visione desiderata della Fondazione Rockfeller sulla città, sul suo futuro, sui suoi rapporti economici, politici e sociali, sulla sua morfologia e sul suo ruolo. Tanto la desidera in tutto il mondo da finanziare le città che aderiscano al progetto.
Il progetto è ovviamente ben fatto, affascinante e invitante ma che sottintende una ”politica” e un modello di società che si vuole promuovere.
Siamo d’accordo?
Lo stesso discorso si può fare per il progetto “Reinventing cities”, promosso da C40 dal titolo “A global competition for innovative, carbon-free and resilient urban projects”. Dove pure compare la taumaturgica parola “resilienza”. Di questo gruppo di città è stato nominato presidente Beppe Sala.
Anche qui dobbiamo sfatare una convinzione: la promozione di questi progetti con l’avallo di importanti fondazioni o supportati da iniziative della UE non sono “la politica” ma strumenti di “una politica” che però ogni Paese o città si deve dare guardando alla sua realtà.
Queste operazioni partono da un “concetto” – non neutrale – che è essenzialmente uno strumento di conoscenza ma gli “strumenti della conoscenza” non sono la “conoscenza” stessa, son solo strumenti per decidere una politica.
Noi quale politica ci diamo?
Sul problema della città, per andare “oltre” l’urbanistica tradizionale, negli ultimi tempi si è elaborato parecchio e in ordine di tempo mi sembra che una riflessione interessante sia emersa nel convegno organizzato dal SIU (Società italiana degli Urbanisti) nel 2012 a Pescara, dove fu coniata l’espressione Biourbanistica che definì la città “come network adattativo ipercomplesso”.
Per un “Sistema Milano”, a che punto è la notte prima che arrivi l’alba? Ne parleremo la settimana prossima.
Luca Beltrami Gadola
*In Fifth Avenue a New York c’è la sede della Rockfeller Foundation
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