23 maggio 2020

L’IMPARI LOTTA TRA VIRUS E POLITICA

Quando è indispensabile una classe dirigente all’altezza dei problemi


Il distacco tra classe politica e scienza, tra classe politica e mondo della competenza è sempre stato uno dei mali del nostro Paese. Il Covid-19 non fato altro che far emergere in maniera drammatica questo problema.

origliaLa situazione creatasi in Lombardia a seguito dell’epidemia Covid-19 è unica al mondo, almeno per l’entità e diffusione del contagio, ma i provvedimenti messi in atto per contrastarla, pur gravati da anni di pessima gestione della sanità pubblica, non sono molto diversi da quelli messi in atto altrove, in Italia e all’estero. Consentitemi pertanto di inserire la situazione in un quadro globale prima di entrare nel merito della nostra regione.

Riconosciamo che l’improvviso sviluppo fuori dalla Cina della pandemia, tra gennaio e febbraio, ha colto tutti i governi impreparati, generando reazioni irrazionali, dal negazionismo all’allarmismo nostrano (poi rivelatosi purtroppo fondato), all’attesa messianica del verbo scientifico, fino al sovranismo, che essendo per sua natura irrazionale non si placa mai, con il rosario in una mano e il fucile nell’altra.

Ma poi, diciamo da marzo fino a oggi, molte cose si sono nel frattempo chiarite, e ci si poteva conseguentemente aspettare una presa di posizione dei governi più matura e responsabile. Che per lo più non c’è stata.

Non c’è bisogno del parere degli scienziati per capire che di fronte a un’epidemia da virus in corso, in attesa di vaccini molto di là da venire, l’unica cosa sensata da fare sarebbe stato individuare e isolare da subito i contagiati e potenziali diffusori del virus, malati o asintomatici che fossero, dai sani.

Per farlo c’era e c’è un solo modo. Identificare oltre che i malati anche il maggior numero possibile di contagiati asintomatici, e isolarli, i primi in ospedale e i secondi in altre strutture, da ogni contatto con i sani.

Il che voleva dire, oltre che chiudere le frontiere e creare zone rosse, sottoporre tutte le persone a rischio contagio, cioè all’inizio meno di un milione d’italiani, ai test necessari (sierologici, tamponi) per accertare la positività o meno. Dopodiché si sarebbero potuti isolare dalla popolazione sana: i malati in ospedale, e tutti (tutti!) gli asintomatici accertati in strutture (hotel o altro) adattate al caso e lontano dalle famiglie per un periodo di quarantena.

Un programma enorme, indubbiamente. Quanto tempo e quanti soldi ci sarebbero voluti per sviluppare i prodotti necessari ai test per così tante persone? E quanta organizzazione per gestire le quarantene degli asintomatici contagiosi lontano dalle loro famiglie?

Creando le strutture per produrre i test e investendoci tutto il necessario i 3 mesi però non erano poi così pochi, visto che in Germania, con un tasso di contagio assai più basso, di test ne sono stati fatti circa 100.000 il giorno, circa il doppio che in Italia, e l’isolamento dei potenziali contagiosi ha avuto luogo. E non a caso ne sta uscendo molto prima, con meno morti e più in sicurezza di noi.

Qui i malati sono stati curati, certo, a fatica e grazie all’abnegazione del personale sanitario, ma oltre a un precipitoso ampliamento dei reparti di terapia intensiva non si è andati oltre. Prevenzione? Anziché agire e investire si è preferito rispolverare la forza delle prescrizioni, come le grida manzoniane: “restate tutti a casa” e tutto andrà bene. E se non andrà bene colpa vostra che non siete stati a casa…

Bel risparmio e bel risultato. Per uscirne (male come stiamo facendo, malgrado l’impegno per altri versi encomiabile del governo in carica), senza ancora sapere se la signora che ci troviamo accanto al supermercato è contagiosa o no, o se il papà asintomatico e finora chiuso a casa ha generato altri malati o asintomatici in famiglia.

Perché dopo tre mesi il torrente del contagio, viaggiando ben poco disturbato negli argini fragili dell’”io sto a casa”, ha avuto tutto il tempo di finire nella grande palude in cui viviamo ora, dove vedremo chi sarà più in grado e come di separare i contagiosi dai sani.

Grazie a questa insipienza abbiamo in ballo una manovra da 55 miliardi di euro, e ci troviamo a dover produrre e usare ogni mese decine di milioni di mascherine di dubbia utilità quando di soldi per fare i test e gestire la quarantena dei contagiosi ne sarebbero bastati infinitamente di meno.

E con debiti meno stellari verso l’Unione Europea, nel nostro caso.

Infatti se il nostro governo, e come il nostro quello di molti altri paesi, avesse avuto il coraggio di imboccare la strada dei test a tappeto due mesi fa, la popolazione rimasta sana, almeno 9 persone su 10, potrebbe già condurre una vita quasi normale, portare i figli a scuola, prendere mezzi pubblici, andare al bar, stare con amici, con un residuo minimo di rischio, essendo quasi tutte le sorgenti di contagio precedentemente individuate e isolate. E avrebbe potuto continuare a lavorare, produrre e consumare, senza aspettare il ritorno delle risorse finanziarie che sono ora in vacanza in qualche arcipelago caraibico, o elemosinare finanziamenti dai paesi del Nord Europa.

Ma il punto sul quale ragionare è ben più ampio, e non riguarda solo l’Italia.

Per quale perversa ed evidentemente diffusissima lacuna della ragione anche in molti altri paesi, vedi Francia, Regno Unito, USA, i governi hanno scelto “io resto a casa” come prima soluzione, anziché quella di isolare il contagio?

Perché pur essendo alla fine enormemente più costosa oltre che complicata da gestire (vedi autocertificazioni, distanze sociali e la farsa sui parenti e affini), pur mettendo a rischio il reddito di moltissimi lavoratori, l’istruzione dei bambini, i legami sociali, e l’economia stessa del paese per molti mesi, forse anni, a venire, era la più facile da attivare.

Dunque per la classe politica, evidentemente quasi ovunque nel mondo, governare significa soprattutto governare non la nazione ma i comportamenti dei cittadini, scaricare su di loro la responsabilità di ogni azione (eh vedi, ti sei ammalato perché non sei stato attento…), anziché pilotare la direzione del cambiamento e agire, ponendo al centro di ogni iniziativa il loro futuro benessere. A ciò si aggiunge l’incapacità di muovere capitali se qualcuno non glie li porge sul vassoio: il che, in un mondo governato dalla finanza globale, vuol dire esserne schiavi.

Ma sembra che chi governa non comprenda neppure il delicato rapporto che s’instaura tra la popolazione e l’ambiente in cui vive. Ci abbiamo messo millenni per passare dall’istinto primordiale di difesa del territorio all’elaborazione e consolidamento dei principii della cooperazione e della condivisione, principii senza i quali non solo non esisterebbero le democrazie, ma sarebbe ormai impossibile convivere pigiati in 7 miliardi su questo pianeta, e tollerare con gli altri la forte densità abitativa e i frenetici spostamenti di cose e persone imposti delle città moderne.

Solo che, per quanto elastici e bravi siamo noi umani nell’adattarci a stravolgimenti repentini dei nostri modelli di comportamento, dobbiamo alla fine fare i conti con l’ambiente fisico e le sue destinazioni d’uso che sono invece anelastici e costosi da rivoluzionare, e alla fine sono loro a porci i loro limiti.

Ad esempio imporre la distanza (cosiddetta con involontario sarcasmo) “sociale” sui mezzi pubblici, al ristorante, in ufficio, nelle scuole tra i bambini, dimezzandone di botto la capienza massima consentita, luoghi progettati e costruiti per una vita di promiscuità e contatti sociali ben diversa da quella fattibile nei prossimi mesi, significa non aver previsto che si mette in crisi drammatica un equilibrio molto complesso tra le persone e l’ambiente in cui viviamo, intaccando in misura per ora imprevedibile sia l’efficienza del sistema sia la sua qualità.

Planando sulla nostra povera Lombardia, il suo governo, dopo avere rivendicato e ottenuto l’autonomia decisionale sulla sanità pubblica, ci ha sguazzato a colpi di sforbiciate, trasferimenti di risorse e potere clientelare, prima lasciando sguarnite le strutture pubbliche, poi investendo in risorse palesemente inutili (vedi reparto Fiera di Milano), trascinando con farraginosa lentezza l’unica cosa che invece era una priorità, i test di positività al virus. Che fatti oggi, a tre mesi dal primo contagio, valgono solo più per le statistiche e per chi crede ancora nel potere salvifico dell’app Immuni.

Intanto si trascina una prolungata insicurezza sanitaria, illudendosi che basti poi dire improvvisamente “liberi tutti” per risolverla. Per quanto in buona compagnia con altri paesi, è comunque grave che chi ha fatto questa scelta non se ne renda ancora conto.

Concludo con una speranza (flebile): chissà che dopo questa rovinosa esperienza chi ha diritto di voto non incominci a capire quanto importante è scegliere le persone giuste per rappresentarlo nel governo delle istituzioni. Governo che non è solo gestione di scartoffie e burocrazia, per le quali uno vale l’altro, ma che richiede invece agli eletti un’intelligenza lungimirante e un impegno costante, dal quale dipende la qualità del futuro dell’elettore, dei suoi affetti e della terra in cui vive.

Giorgio Origlia



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