9 gennaio 2020

ORATORI E CONCERTI DI NATALE

Una riflessione su musica sacra e profana


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Mentre il Capodanno è celebrato da musiche festose ed inebrianti come i valzer di Strauss del Musikverein di Vienna, le arie di opere liriche italiane della Fenice di Venezia, la Nona di Beethoven dell’Orchestra Verdi all’Auditorium milanese, i giorni di Pasqua e di Natale ci portano capolavori della cosiddetta “musica sacra”: a Pasqua si sentono un po’ ovunque le tre Passioni (Matteo, Giovanni e Marco) e l’Oratorium Festo Paschali di Bach mentre durante le feste natalizie sono diventati rituali il Messiah di Händel e l’Oratorium Tempore Nativitatis Christi di Bach. Quest’ultimo lo abbiamo ascoltato martedì scorso nella chiesa di San Marco, organizzato dalla Società del Quartetto ed eseguito dall’Amsterdam Baroque Orchestra & Choir diretti da Ton Koopman che lo ha dedicato ad Antonio Magnocavallo, il presidente del Quartetto che delle opere vocali di Bach, e di questi interpreti in particolare, fu grande estimatore e promotore.

Il concerto si è svolto in una chiesa gremita nonostante il freddo che ha costretto alcuni, impreparati ad affrontarlo, ad abbandonare prima della fine, anche perché l’esecuzione integrale dell’Oratorio dura più di tre ore delle quali due e mezza di pura musica! E dico subito che l’esecuzione è stata sublime; direttore, solisti (Martha Bosch, Clint van der Linde, Tilman Lichdi e Klaus Martens), orchestra e coro hanno fatto a gara nell’eccellere e ci hanno restituito una lettura mozzafiato dell’intera opera. Non si è sentito un colpo di tosse, nonostante il clima, e la tensione era tanto forte che sembrava di poterla toccare con mano.

L’Oratorio di Natale è composto da sei “cantate” scritte rispettivamente per le liturgie del 25, 26 e 27 dicembre, dell’1, 2 e 6 gennaio, eseguite una sola volta fra Natale 1734 ed Epifania 1735, poi mai più fino al 1857, oltre un secolo dopo e addirittura dieci anni dopo la morte di Mendelssohn che – come si sa – fu lo “scopritore” di Bach quando ne fece eseguire a Berlino, nel 1829, una parte della Passio D.N.J.C. secundum Matthaeum. Consiste in 64 “pezzi” di cui 30 recitativi – 16 del tenore che racconta la vicenda evangelica e 14 affidati a soprano, alto e basso – 9 arie solistiche, 2 duetti, un terzetto, 13 corali, 8 cori e una sinfonia per soli strumenti.

Di fronte a un simile monumento, così come di fronte alle Passioni e all’Oratorio di Pasqua, ci si chiede quanto l’ispirazione più profonda di queste opere sia realmente devozionale e simpatetica alla nascita o alla morte del Cristo, come i testi vorrebbero far credere, o quanto invece l’animo motore di esse sia piuttosto la teatralità. Teatro come spettacolo volto a sorprendere ed incantare il pubblico che in questi casi, e non è un caso, è composto da partecipanti a liturgie imponenti e celebrative per le più importanti “feste” dell’anno. E sappiamo come festa e teatro siano sempre andati a braccetto.

Viola_2Per capire la genuina ispirazione di queste opere credo si debbano tener presenti alcune circostanze come: (1) il fatto che sono opere scritte “su commissione”, ovvero in forza di un contratto con cui il Comune di Lipsia obbligava il Kantor a predisporre di suo pugno tutta la musica necessaria alla liturgia per date fisse; (2) che erano destinate ad essere ascoltate una sola volta, perché allora non si eseguivano opere scritte da altri e perché il pubblico pretendeva musiche sempre nuove ed originali; (3) che tuttavia era usuale comporre questo genere di musica prendendo pari-pari – o rielaborando – parti di musiche, proprie o di altri, scritte per precedenti occasioni (non erano furti o plagi ma operazioni consentite che venivano chiamate “parodie”), anche per non dovere ogni volta consumarsi nella ricerca di temi idonei alle circostanze religiose.

Tutte o quasi le opere cosiddette “sacre” di Bach, comprese le innumerevoli “Cantate”, nascono con queste modalità e si differenziano enormemente dalle altre opere, chiamiamole profane, come i concerti, la musica per tastiera (organo e clavicembalo), quella che oggi chiameremmo musica da camera come le Suite, le Partite, le Sonate, l’Offerta Musicale o l’Arte della Fuga, solo per citare le più note (ricordo in proposito che il catalogo BWV è composto da 1.128 numeri, oltre ai 213 dell’appendice, per un totale cioè di 1.341 opere). E’ interessante osservare come la musica “profana” non conosca le parodie, sia generalmente di ispirazione propria (può essere stata sollecitata o richiesta, mai imposta o costretta da regole esterne che ne abbiano limitato la libertà creativa), ma soprattutto è quasi sempre scritta non per una occasione specifica ma piuttosto perché altri la possano conoscere, studiare ed eseguire.

Se si comparano i due generi della produzione bachiana risulta evidente quanto più libera, creativa, innovativa sia la musica “profana” rispetto a quella “sacra”, e come la musica liturgica si configuri come un servizio da rendere al committente anziché come libera iniziativa del compositore. Di religioso – nel senso di devozionale – non credo vi sia molto negli Oratori e nelle Passioni bachiane, mentre ritengo ci si trovi di fronte a una sorta di teatro del barocco tedesco, un diverso modo di intendere quel melodramma che negli stessi anni si stava affermando in Italia, soprattutto nell’area napoletana (quando Bach scrisse l’Oratorio di Natale Alessandro Scarlatti era morto da appena dieci anni e Pergolesi stava ancora scrivendo il suo meraviglioso Stabat Mater).

***

Lo stesso sentimento è emerso vividamente nell’ascolto del Concerto di Natale del venerdì e sabato successivi, alla Scala, dove John Eliot Gardiner ha magistralmente diretto la “trilogia sacra” per soli, coro e orchestra opera 25 di Hector Berlioz, L’enfance du Christ. Gardiner, il baronetto inglese che si autodefinisce un “agricoltore non credente”, è uno dei più versatili ed ispirati direttori d’orchestra (raggiunse la celebrità come specialista di Monteverdi e del passaggio dal rinascimento al barocco musicale italiano) e – come ha fatto Koopman per Bach – ha interpretato perfettamente la laicità di Berlioz accentuando la teatralità dell’opera. L’orchestra e il coro (compreso quello delle voci bianche) del nostro teatro, e i cinque magnifici solisti – Allen Clayton, Ann Hallenberg, Lionel Lhot, Nicolas Courjal, Thomas Dolié – hanno eseguito questa breve opera (un’ora e 35 minuti) mettendone in risalto tutta la poesia, che definirei celestiale, ma soprattutto la drammaticità e persino la comicità del testo.

Giusto per dare un’idea, nell’ultima giornata dell’oratorio di Natale di Bach, ed anche nella seconda parte della trilogia di Berlioz, laddove si narra la vicenda della strage degli innocenti e della fuga in Egitto, i due racconti – della paura del tiranno e della furbizia dei Magi – sono profondamente intrisi di ironia; e le scenette dei tre Re che incontrano Erode – e sospettano di essere imbrogliati con la storiella della cometa – sono delle autentiche pièce teatrali. Credo che sia Bach, laddove gioca con l’eco nell’Aria per soprano ed oboe della quarta parte dell’Oratorio, sia Berlioz – che prima del finale introduce un lungo Trio per due flauti ed arpa soli, quasi come una cadenza, per rappresentare la spensierata fanciullezza del bambin Gesù in Egitto – avevano in testa di preparare per il loro pubblico veri e propri coups de théậtre.

Paolo Viola



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