2 novembre 2019

IL RESPIRO DELLA MUSICA

Il concerto della Fil Filarmonica di Milano


I quattro concerti brahmsiani eseguiti una settimana fa al Conservatorio da LaFil Filarmonica di Milano, e ancor più le recensioni entusiastiche che sono state pubblicate, anche sulla newsletter della stessa Orchestra, inducono a riflettere nuovamente su un tema che sta emergendo con forza sempre maggiore nella prassi esecutiva di questi anni.

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Oltre alla ricca cronaca di Giuseppina Manin sul “Corriere della Sera”, e al prezioso intervento di Stefano Jacini su “Il Giornale della Musica” ( “… si tratta di un organico di altissimo livello, capace di estrema precisione, di un fraseggio degli archi elegantissimo, di trasparenze da orchestra da camera come di sontuosi volumi di suono … un Brahms – così massiccio e insieme etereo – sono anni che non lo si ascoltava”), mi ha colpito il testo di Luca Chierici che su “Il Corriere Musicale” ha scritto: “Un lungo lavoro di prove, necessario anche per realizzare l’idea del direttore, che è fondamentalmente quella di fare respirare la musica lasciando che la dinamica segua il naturale avvicendarsi della forma, ossia staccando tempi differenti che seguivano il naturale procedere della forma-sonata o della variazione. Semplice? In teoria sì, ma quante volte assistiamo a letture che partono da un inconcepibile rispetto per una scansione unitaria di tempo che non è davvero scritta da nessuna parte, almeno per quel che riguarda la musica dei secoli diciottesimo e diciannovesimo? Lasciamo ai compositori del Novecento e oltre la libertà di indicare la stretta osservanza di metronomi e cronometri: la grande musica dei secoli precedenti ha bisogno innanzitutto di respirare, e la frequenza del battito è rivelato dalla qualità, dalla natura dei temi”.

E più avanti: “Gatti non ha fatto altro che sottolineare i caratteri di un fraseggio consolidato da decenni di esecuzioni che hanno fatto la storia dell’interpretazione, cogliendone gli aspetti in una sintesi che solo un profondo conoscitore dei testi e della tradizione esecutiva può possedere. E gran parte del lavoro da lui svolto si è sicuramente concentrato nella difficile componente di trasmissione di queste idee all’orchestra, costretta a una concentrazione massima per seguire una continua fluttuazione dei tempi e delle intensità di suono”.

Ho scritto anch’io di questi quattro concerti, la settimana scorsa, sostenendo che “è difficile dare un’idea della bellezza del suono o della ricchezza del fraseggio con cui sono arrivate al pubblico le Sinfonie di Brahms … inaspettatamente nuove, ripensate daccapo, sviscerate in tutti i loro meandri concettuali ed emotivi, con le singole parti fatte emergere una ad una con magnifica lucidità e chiarezza. Gatti ha dimostrato una conoscenza totale e profonda della partitura, tanto da non trascurare alcuna sfumatura e soprattutto da approfondire le indicazioni agogiche e dinamiche con grande libertà ma insieme con rigorosa coerenza”. E aggiungevo che nell’ultimo movimento della Quarta Gatti è riuscito “a far emergere la complessità della costruzione musicale, e la raffinatezza delle relazioni contrappuntistiche ed armoniche, con evidenza esemplare”.

Ricordo anche di avere, in altra occasione, scritto di due famosi direttori – il greco Teodor Currentzis e il russo Kirill Petrenko – che essi rappresentano “l’inizio di una nuova era della musica classica. Il loro modo di affrontare la partitura ponendosi “insieme” alla propria orchestra ha alla base una nuova visione del tempo musicale e della sua partizione: il loro tempo non ha più nulla a che fare con il metronomo, è solo un tempo interiore, in continuo divenire, mai uguale a se stesso, il cui ritmo (che non è ritmo nel senso cui siamo abituati) è determinato dal fraseggio anziché costituirne la struttura portante”

Chiedo scusa per essermi dilungato in queste citazioni ed autocitazioni, ma è proprio mettendole a confronto che prende forma una riflessione sul nuovo modo di leggere i grandi capolavori della musica classica, quello di far respirare la musica; un modo che, finita l’epoca di von Karajan, ha preso corpo inizialmente con Claudio Abbado, soprattutto nella seconda parte della sua vita, ed ora si incarna in direttori come Petrenko, Currentzis, Gatti. E’ il modo diraccontare” la musica senza impiccarla al metronomo e alle indicazioni dinamiche che vogliono “piani” e “forti” secondo gusti di altre epoche, ambienti, culture. (So di essere blasfemo, ma chi oggi riesce a trarre godimento dall’ascolto di una sinfonia beethoveniana diretta da Toscanini? quel rigore che pure ha avuto il merito di creare il moderno professionismo, opponendosi al pressappochismo anarchico prima largamente diffuso, oggi è diventato indigeribile!).

Ed anche la cosiddetta prassi “filologica”, che vuole restituire all’esecuzione il suo originale mood, non va intesa pedissequamente, per inseguire ristrettezze tecniche e “mode” di epoche trascorse, ma – come abbiamo sentito pochi giorni fa nelle Sinfonie di Beethoven proposte da Jordi Savall con strumenti d’epoca – ricercando quel senso e quella misura che vanno in parte perdute con l’avanzamento della tecnica ma che le appartengono intimamente.

Il sottotitolo del “Corriere Musicale” è molto singolare – “La chiamano classica, ma è sempre contemporanea” – e la dice lunga sulla magìa della grande musica, che si rinnova sempre, e ogni volta che la riascoltiamo è sempre diversa, che ogni interprete deve rigenerare; perché se così non fosse la musica classica potrebbe esser goduta solo – come sosteneva Baricco in un famoso libro dei suoi esordi, “L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin” – da ottusi nostalgici che si oppongono alla modernità.

Abbiamo la fortuna di vivere un momento meraviglioso di evoluzione della prassi esecutiva dei grandi capolavori della musica classica – quel genere che sempre più si ritiene esser contenuto nei due secoli d’oro del sette e dell’ottocento – e non possiamo che essere grati a quei musicisti che, come ha fatto Gatti in questa recente occasione, ci fanno riscoprire la musica come se non l’avessimo già ascoltata infinite volte. Non rigenerano solo la musica. Rigenerano anche noi.

Paolo Viola




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