24 settembre 2019
MILANO: VITA DA CANYON?
Scott Verdone e Kubrik per leggere il presente
Farò un discorso da vecchio: lo sono. Mi accorgo di esserlo soprattutto quando, scrivendo, mi vengono in mente delle citazioni, questa volta tre film molto datati: uno del 1971, uno dell’82 e l’ultimo del 1995. La notte dei tempi. Però voglio parlare di due cose di oggi: il Meazza e i grattacieli. Ma la prendo ancora più alla larga e parto dalla discussa dichiarazione di Ursula von der Leyen a proposito della difesa dello stile di vita europeo.
Quella dichiarazione ha scatenato reazioni violente perché è stata letta come razzista e xenofoba a supporto di politiche di respingimento dell’immigrazione. Non conosco abbastanza le opinioni della Von der Leyen per darne un’interpretazione autentica ma penso che il suo pensiero sia stato travisato.
È suo comunque il merito di aver sollevato il problema degli stili di vita e del diritto di voler mantenere il proprio, ovviamente a condizione di non escludere altri stili di vita o, pur di mantenerlo, conculcare diritti altrui: come sempre si tratta di trovare un equilibrio tra sé e gli altri.
Le città – Milano -, hanno uno stile di vita proprio e specifico? Lo stile di vita è quello della maggioranza dei cittadini? Cittadini che invecchiano? Lo stile di vita milanese, ammesso che si sia d’accordo sulla sua definizione, coincide con quello che chiamiamo “modello Milano”? Lo stile di vita milanese è essenzialmente quello della famosa borghesia che non esiste più? Ma la domanda alla quale m’interesserebbe dare una risposta è: si può condizionare o, di più, imporre uno stile di vita? La pubblica amministrazione lo dovrebbe fare? Lo può fare? Con quali strumenti? In che direzione? Perché questa è politica.
La forma e l’aspetto della città, io penso, sono uno ma non il solo strumento per condizionare lo stile di vita, forse persino il più importante.
Lo stadio Meazza fa parte della forma storica della città e, se lo si sostituisce con un progetto che prevede la costruzione di nuovi grattacieli, si interviene pesantemente nel solco della “grattacielizzazione” del tessuto urbano con inevitabili conseguenze sullo stile di vita della città.
Altrove abbiamo dibattuto il problema degli standard urbanistici e della “speculazione edilizia” su San Siro e quindi mi defilo da quei temi.
Personalmente non ho nulla in contrario al grattacielo in sé, a prescindere da alcune considerazioni da vecchio costruttore incline al razionalismo e al funzionalismo: alcune delle recenti realizzazioni non rispecchiano assolutamente criteri di razionalità e funzionalità rispetto all’uso. La forma esteriore, che conforma lo spazio interno, è troppo condizionata da valori simbolici e di immagine. Gli architetti e i critici dell’architettura mi odieranno ma certe volte mi vien in mente la famosa battuta di Verdone nel film Viaggi di nozze (1995): ”Famolo strano!”.
I maggiori costi di costruzione sacrificati sull’altare dell’aspetto simbolico e del marketing rispetto alla redditività è un problema che riguarda gli azionisti, lasciando come sempre fuori i piccoli sulla cui testa passa comunque tutto. Dell’aspetto strettamente estetico ne parliamo alla fine.
Ma torniamo alla “grattacielizzazione” e alla seconda citazione da vecchio cinefilo: Blade Runner, un film di Ridley Scott del 1982. Tutto si svolge in una città nella quale un’umanità emarginata vive come nel fondo di canyon dalle pareti fatte di grattacieli dalle facciate tutto vetro e di rutilante pubblicità murale. Un paesaggio distopico? Il terreno di cultura per la gig economy dei giorni nostri, un labirinto percorso da deliverers dove l’ascensore sociale non funziona più? Questo il nostro futuro?
Veniamo all’estetica e allo skyline della città.
Gli strumenti urbanistici si descrivono e si giudicano con documenti bidimensionali dove la terza dimensione – l’altezza del costruito -, non viene mai rappresentata, eppure è fondamentale per comprendere fino in fondo quale potrà essere l’aspetto futuro della città, proprio quello che determina anche involontariamente gli stili di vita.
Ma c’è di più.
L’aspetto degli edifici alti è rilevantissimo in una città, come Milano, dove sono disseminati in un contesto nel quale l’altezza media è al massimo di 8/10 piani e divengono per la loro visibilità veri e propri punti di riferimento per una personale “geolocalizzazione”. Non è questione di skyline, categoria dell’osservazione ottica privilegiata, ormai prerogativa delle diffusissime immagini da drone, ma di percezione da viandante, da city users, una visione in qualche modo costretta, si potrebbe dire “coatta”.
Allora perché devo esser costretto a vedere ovunque vada la pubblicità delle Generali sul grattacielo della Zaha Hadid, fatta di quelle dimensioni, mi si dice, per non farlo apparire più basso di quello della Allianz che le sta dietro? Lo stesso discorso vale per altri edifici svettanti nel cielo di Milano.
Eccovi allora l’ultima citazione: Arancia meccanica, di Stanley Kubrik, tratto dal distopico romanzo di Antony Burgess e la famosa Cura Lodovico. Ve lo ricordate? L’interprete, Alex, con un ordigno viene costretto a tenere gli occhi spalancati per vedere quello che non vorrebbe: si chiama cura Ludovico da Ludwig Von Beethoven perché è facendogli sentire la Nona che viene “curato”. Un paragone troppo forte. È vero, a noi basta non alzare gli occhi.
Luca Beltrami Gadola
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