7 giugno 2019

TRE “B” E UNA “M”

I grandi nomi e le nuove generazioni


Fin da quando ero poco più che bambino mi è rimasta impressa la frase pronunciata da una matura signora che, dopo aver ascoltato un concerto sentenziò che “…non c’è storia, la musica è solo quella delle tre B di Bach, Beethoven e Brahms…!”. Negli anni l’ho poi risentita molte volte, quella frase, e ricordo anche di aver risposto, sentenziando anch’io, “…e la M di Mozart dove la mettiamo?…

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E’ difficile sottrarsi all’impressione che la voglia di creare una piramide dei grandi musicisti e di porre sulla cima i “più grandi di tutti” imperversi ancora, anche se non è più elegante dirlo. Basta osservare i programmi di sala dei concerti, dalle sale più autorevoli a quelle parrocchiali di periferia, e si capisce come senza Bach, Beethoven, Brahms e Mozart “non si va da nessuna parte”, nel senso che non si riempiono le sale.

Non capita solo per la musica, anche le arti figurative sono preda della stessa ossessione: i “grandi” fanno sempre il pieno (e ahimè le code), i “minori” attirano solo studiosi e curiosi. E la regola vale sia per l’arte classica che per quella moderna e ancor più per quella contemporanea; domina lo star system. In architettura si è persino coniato l’orribile termine “archistar” per sottolineare che anche lì vi è una piramide in cima alla quale siedono solo in pochi.

Per la musica contemporanea poi il fenomeno si amplifica perché non c’è solo la piramide (a dire il vero poco considerata) dei compositori, ma c’è l’altra, ancor più apprezzata, degli interpreti: i grandi direttori, i grandi pianisti, i grandi violinisti e via di seguito, i quali talvolta riescono persino a far risplendere della propria luce compositori non ancora celebri (come non pensare a Luigi Nono portato alla ribalta da Claudio Abbado?).

Viola-01Direte che tutto ciò è ovvio e che è nella natura delle cose, ma forse lo è meno di quanto si possa pensare. Intanto questo fenomeno non ha il carattere dell’universalità ma è piuttosto limitato a determinati ambienti e a determinate epoche; l’ammirazione per la musica tedesca e austriaca è molto diffusa in Europa e molto meno accesa negli altri continenti, ma anche in Europa ciascun Paese coltiva fior di miti intorno ai propri compositori. Ci sarebbe da chiedersi come mai – se è abbastanza vero che generalmente i tedeschi amino Wagner e gli italiani Verdi – in Italia siano tanto più amati Bach, Beethoven e Brahms (…e Mozart!) e molto meno Vivaldi, Scarlatti, Pergolesi o Cherubini. A sua volta Bach è stato famoso ed acclamato in vita ma poi ignorato per un secolo, riscoperto dal giovane Mendelssohn nell’ottocento e riportato sugli altari solo all’inizio del novecento; e si racconta che Beethoven usasse il “Clavicembalo ben temperato” come mero esercizio per le dita, senza averne mai percepito la grandezza, mentre proclamava Cherubini “il maggior compositore drammatico vivente”. Né ebbe miglior sorte Vivaldi dimenticato il giorno dopo la sua morte e riscoperto ai primi del secolo scorso grazie al ritrovamento dei suoi manoscritti.

Non credo che sia molto difendibile la scala di valori che ancora oggi è tanto diffusa fra i frequentatori delle sale da concerto; chissà se le nuove generazioni riusciranno a spazzar via tanti luoghi comuni e sapranno avere un approccio meno scontato e più aperto nei confronti della musica in generale e di quella colta in particolare.

A proposito di diversi approcci mi piace segnalare ciò che si è visto e sentito in questi ultimi giorni al MA.MU., il Magazzino Musica di via Soave, dove due eventi particolari hanno scandito il fitto calendario che normalmente riempie la settimana. Domenica mattina 26 maggio il gruppo di giovani di OpusAltea – creato e diretto da Altea Pivetta – ha messo in scena un’esemplare riduzione delle “Nozze di Figaro” (sempre Mozart, comunque!) accompagnata al pianoforte e concertata da Maria Silvana Pavan, con le cinque magnifiche voci di Aleksander Kamedulsky (Figaro), delle due soprano Emilija Minic e Sara Intagliata (impagabili Susanna e Contessa), di Filippo Rotondo (un potente Conte) e della stessa Pivetta nell’impertinente ruolo di Cherubino (“Non so più cosa son, cosa faccio!”).

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Pochi giorni dopo, sabato 8, il piccolo “MaMu ensemble” costituito da una quindicina di strumentisti e da una ventina di coristi, amatori non professionisti e in larga misura giovani, ha concluso la stagione 2018/2019 regalando al pubblico due raffinate esecuzioni; lo “Stabat Mater” di Pergolesi, che molti ritengono essere – e sostanzialmente mi accodo al giudizio – “una delle più belle musiche mai scritte”, diretto con passione da Stefano Ligoratti con la limpida e morbida voce del soprano Gloria Carminati che dialogava con la non meno brava contralto Annalisa Dossi. E per concludere la maestosa “Heiligmesse” di Haydn per soli, coro e orchestra guidati con generoso impeto e grande precisione dal patron del MAMU, Nicola Kitharatzis, che all’ultimo momento ha dovuto abbandonare il suo leggío da violoncellista per salire sul podio e sostituire il direttore.

Sarà stato il particolare clima che si respira in quel magico loft, sarà per il modo informale e sciolto con cui viene celebrato il rito dell’opera e del concerto, sembrava non vi fosse nulla da invidiare alle più paludate esecuzioni canoniche. Un puro, semplice e gioioso godimento.

Paolo Viola



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