21 maggio 2019
L’ARCHITETTO DELLA PORTA ACCANTO
Il quartiere San Siro
Da quando mi sono potuto occupare da vicino di edilizia popolare – consigliere di amministrazione di Aler per poco più di un paio d’anni a partire dal 2011- e poi per passione e interesse personale, ne ho tratto la convinzione che la crisi di quello che ora si chiama Housing Sociale, avesse poco o nulla a che fare con l’architettura e l’urbanistica. Eppure a occuparsene con impegno e serietà troviamo a Milano proprio la facoltà di Architettura del Politecnico con un ruolo di supplenza della politica ma anche al posto di gruppi interdisciplinari che nessuno ha mai voluto organizzare, meno che mai la mano pubblica.
Basta andarsi a leggere il documento presentato in Triennale il 5 febbraio sorso dalla rete Sansheroes – lo si trova agevolmente su Internet – dal titolo San Siro 2017 Fotografia del quartiere, sintesi di un lavoro del gruppo di ricerca Mapping San Siro (DAStU – Politecnico di Milano), per capire quanto poco abbia a che fare l’architettura e l’urbanistica in senso stretto rispetto al problema dell’edilizia residenziale pubblica e più in generale col degrado delle periferie.
Certo architettura e urbanistica hanno le loro colpe, imperdonabili, basta pensare al quartiere Corviale di Mario Fiorentino a Roma o il famigerato quartiere Scampia di Francesco Di Salvo a Napoli, tanto per citare esempi clamorosi, un monito per tutti gli urbanisti e gli architetti a non credersi taumaturghi assoluti del moderno male di vivere. Ma questo non è certo il caso del Quartiere San Siro a Milano.
Questo quartiere di edilizia popolare balza alle cronache tutte le volte che c’è un intervento di sgombero di abusivi con la forza pubblica o di denuncia di episodi di degrado, case fatiscenti, spazzatura abbandonata, malavita e spaccio. Poi scompare dai riflettori e ai residenti resta l’amaro in bocca di essere mediaticamente confinati in una casbah.
Perché ne parlo adesso, perché, come si dice, mi è saltata la mosca al naso quando ho sentito l’ineffabile Salvini parlare di Zone Rosse a Milano e individuarle prevalentemente nelle zone della movida o nelle aree verdi marginali abbandonate a se stesse. Ma anche quando ho visto il programma di Milano Arch Week 2019.
Perché non ci si occupa davvero e non elitariamente dei luoghi di partenza della droga, dei luoghi nei quali crescono i giovani che si drogano e diventano pusher? Perché non parliamo del disagio dei quartieri popolari, quelli che soffrono certo più di quelli della movida?
Ma che cos’ è oggi il Quartiere San Siro? Su un’area, grande più o meno quanto quella di CityLife, nel 1940 sono stati costruiti 6.000 alloggi e oggi ci abitano circa 12.000 persone, per il 45% stranieri di 85 etnie diverse e gli italiani sono vecchi: il 20% supera i 75 anni, una quota più alta della media cittadina (14%).
Qui parlare di integrazione vuol dire non solo un’integrazione nei confronti del nostro Paese e dei suoi costumi ma persino un’integrazione tra etnie diverse che tendono a isolarsi e in molti casi ad avere comportamenti conflittuali tra di loro, divise dunque e anche con lingue diverse.
La ricerca del Politecnico, fatta sul campo in uno spazio all’interno del quartiere e ancora in corso, mette in evidenza una serie di disagi gravi: si va dalla solitudine delle persone anziane a tutti i problemi di vicinato ma portati all’esasperazione per la mancanza di mediatori.
Il disagio è anche la povertà, la mancanza di lavoro, l’insicurezza – che se in città vale cento qui vale almeno il doppio – perché si sa che nelle cantine della propria casa dormono degli sconosciuti che hanno sfondato le porte e che si attaccano ai contatori facendoli saltare lasciando al buio tutti fino all’arrivo dei manutentori. La paura a uscire di notte è peggiore che nel resto della città perché le vie interne ai singoli comparti sono spesso chiuse dalle cancellate e dunque senza nemmeno vie di fuga.
Il disagio è il sovraffollamento di alcuni appartamenti assegnati che diventano invivibili con l’aumento dei figli e questi ultimi hanno pochi spazi di gioco all’esterno – indispensabili per chi ha case piccole – spazi malandati e solo all’aperto. In questi luoghi è persino difficile il rapporto tra piccoli di etnie diverse. Anche le mamme si dividono quando portano fuori i figli a spasso e chi va nel verde di Piazza Selinunte sono di etnia diversa da chi va in Piazzale Segesta.
Potrei elencare altre forme di disagio, tutte fedelmente riportate nel documento del Politecnico che consiglio di leggere per avere un quadro completo della situazione e capire di che natura sia il malessere del Quartiere San Siro.
Quanto di questo “disagio” è riconducibile a problemi di architettura o di urbanistica? Poco o nulla, soprattutto se si è costretti ad intervenire su un “edificato”.
Il cattivo stato di manutenzione delle facciate e dei serramenti – case costruite all’inizio della guerra con materiali pessimi – è appunto un problema di manutenzione; il ricupero di spazi ai piani terreni per attività sociali, necessarie e anzi indispensabili, è un problema di gestione e di piccole modifiche nel taglio; il verde – una dotazione sufficiente e persino migliore di altri quartieri della media periferia urbana – ha bisogno di manutenzione; l’accumulo di spazzatura è un problema di AMSA, che tra l’altro sembra aver ridotto i passaggi.
Allora cosa c’è nella cassetta degli attrezzi di architetti e urbanisti che serva al Quartiere San Siro? Poco e comunque non certo sufficiente per risolvere il problema del disagio dei quartieri di edilizia popolare e direi anche delle tanto evocate periferie.
Ci vanno denari e tanti, meno in manutenzioni che in accompagnamento sociale e presenza dello Stato e delle Istituzioni. L’uomo cura l’uomo guardandolo in volto con empatia.
Quando si accetterà che l’edilizia sociale vada sostenuta, aiutata e ci si deve investire? Senza pensare a formule magiche di collaborazione pubblico/privato, aleatorie e più favorevoli al privato che al pubblico. L’edilizia sociale è una infrastruttura abilitante come gli ospedali, le ferrovie o le autostrade: serve alla crescita del Paese.
L’architetto della porta accanto, come il Politecnico nel Quartiere San Siro, serve ma è soprattutto un testimone attento: fa quello che andrebbe fatto anche da altri, va fatto comunque quando si parli della città: guardare in faccia la realtà e passare poi all’analisi dei bisogni, poi decidere. Prima le periferie. Qui arriva la politica.
Quando arriva?
Luca Beltrami Gadola
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