11 aprile 2019

CURRENTZIS E LA MESSA DA REQUIEM

Musica in San Marco e anche Brahms alla Verdi


Venerdì sera, nonostante il caos della movida, aumentato esponenzialmente a causa del Salone del Mobile, siamo fortunosamente riusciti a raggiungere la chiesa di San Marco per ascoltare l’evento della stagione musicale milanese organizzato dalla Società del Quartetto, la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi (che in quella chiesa vide la luce, diretta dall’autore, nel primo anniversario della morte del Manzoni) eseguita da «MusicAeterna» e cioè dall’Orchestra e dal Coro dell’Opera di Perm (siamo nella Russia profonda, ai piedi degli Urali) diretta dal greco Teodor Currentzis.

Viola

Di questo direttore e dei suoi complessi, orchestrale e corale, abbiamo scritto diffusamente in questo giornale in occasione dei due concerti ascoltati alla Scala – quello beethoveniano dell’aprile 2018 e quello mahleriano del successivo novembre – sostenendo che Currentzis, insieme a Petrenko, rappresental’inizio di una nuova era della musica classica. Il loro modo di affrontare la partitura ponendosi “insieme” alla propria orchestra ha alla base una nuova visione del tempo musicale e della sua partizione: il loro tempo non ha più nulla a che fare con il metronomo, è solo un tempo interiore, in continuo divenire, mai uguale a se stesso, il cui ritmo (che non è ritmo nel senso cui siamo abituati) nasce ed è determinato dal fraseggio anziché costituirne la struttura portante”.

La Messa da Requiem a San Marco ha dimostrato una volta di più l’assunto che con questa nuova generazione di direttori quarantenni sta profondamente cambiando il respiro dei grandi capolavori musicali, in modo particolare in quelle loro componenti essenziali che vengono chiamate “agogica” e “dinamica”. Copio, assumendomene il rischio, da Wikipedia: Nella terminologia musicale, l’«agogica» di una composizione è una qualificazione dell’espressione musicale per quanto riguarda l’accentuazione e il complesso delle leggere modificazioni apportate alle durate delle note e all’andamento, le quali possono anche lasciare ampi spazi discrezionali all’esecutore. Le variazioni «agogiche» sono distinte da quelle «dinamiche», che consistono nelle variazioni delle intensità sonore. Tuttavia, i due parametri sono spesso abbinati e interagiscono variamente, tanto nella pagina scritta, quanto nel momento dell’esecuzione.

Nel concerto dell’altra sera – al di là della intelligente regia che ha voluto la magica illuminazione della chiesa, gli abiti talari dei musicisti, il silenzio assoluto e senza applausi sia all’inizio che alla fine del Requiem, l’immobilità e la sospensione per gli interminabili minuti seguiti all’ultima nota – l’eccezionalità è consistita proprio nella rivoluzione delle indicazioni agogiche e dinamiche dell’esecuzione. Per verificarlo bisognerebbe mettere in fila, una dopo l’altra, le versioni della Messa da Requiem dirette da Toscanini, da von Karajan e da Abbado, e subito dopo riascoltare questa di Currentzis (la si trova già su youtube!), e si capirebbe quanto, in meno di un secolo e insieme al mondo, sia evoluto il concetto di “tempo” nella musica, come questa si avvicini sempre di più a una percezione intima e sensoriale, come possano arrivare a fondersi il respiro proprio della musica con quello degli interpreti e con quello nostro, degli ascoltatori. Più del ritmo si deve sentire il respiro della musica.

So di cantare un po’ fuori dal coro, avendo ascoltato commenti diversi come “scarso rigore”, “troppa libertà”, “eccessiva emotività”, ecc. ecc. Tuttavia credo fortemente che questo approccio sia invece un passo avanti vero un maggiore approfondimento del senso della musica e delle intenzioni del compositore. Il quale nell’immaginare melodie, armonie e contrappunti, non usa il metronomo e non lo usa neanche nella fase dell’orchestrazione. E qualsiasi solista, di qualsiasi strumento, conosce bene l’intimo piacere di suonare ogni tanto solo per se stesso, in totale libertà, ignorando anche clamorosamente le indicazioni agogiche e dinamiche del testo.

Sarà stato anche per l’atmosfera della chiesa e per il carisma del direttore – certamente per i meravigliosi suoni orchestrali insieme alla potenza e alla duttilità del magnifico coro – fatto sta che per la più parte delle persone che stipavano San Marco fino all’inverosimile si è trattato di una esperienza fuori dal comune, emozionante ed indimenticabile; un Requiem di cui tutto si potrà dire tranne che non sia stato di qualità elevatissima, curato in modo maniacale in ogni dettaglio e vorrei dire anche – nello strano miscuglio fra il conclamato ateismo dell’autore, l’ambiente manzonianamente cattolico del rito, le origini greco-ortodosse del direttore e la palpabile presenza del patriarcato russo negli abiti dell’orchestra e del coro – di una religiosità profondamente laica; credo che a Verdi sarebbe piaciuto molto.

BRAHMS ALLA VERDI

Eccitati da questo evento, due giorni dopo abbiamo ascoltato le prime due Sinfonie di Brahms (le altre due sono previste il 17/19 maggio) nell’esecuzione dell’orchestra Verdi con la direzione di Robert Trevino. Avevamo un ottimo ricordo di due pregevoli prestazioni (la Sesta Sinfonia di Mahler ma soprattutto la Settima di Šostakovič, nella scorsa stagione e sempre con la Verdi) di questo direttore texano di dieci anni più giovane di Currentzis e dunque eravamo pieni di aspettative, anche perché non capita di frequente poter ascoltare l’intero ciclo delle sinfonie brahmsiane così ravvicinate. E’ triste dire che le aspettative sono state sostanzialmente deluse. L’esecuzione è stata al limite del banale, scialba o quantomeno scolastica, figlia di quella assurda carenza di tempo da dedicare alle prove – imposta dalle consolidate regole internazionali dei concerti sinfonici – che non consente di approfondire alcunché e soprattutto di amalgamare il sentire del direttore con quello dell’orchestra. In questo caso la scelta direttoriale dei tempi, ancorché apparentemente libera dalla tradizionale rigidità, non aveva nulla di quel respiro di cui abbiamo detto a proposito del Requiem, soprattutto non teneva conto dell’intimità e della dolcezza che per tutta la vita Brahms ha coltivato nella sua meravigliosa produzione cameristica e che ha poi trasfuso in quella sinfonica. Peccato, perché ci è anche parso che l’orchestra abbia fatto di tutto per assecondare il direttore e che sia stata proprio una sua fondamentale aridità ad imporsi su ogni cosa.

Paolo Viola



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