7 marzo 2019

BERLINO E MILANO, DUE GRANDI CONCERTI

Uchida e Petrenko, entrambi indimenticabili


190307_Viola-Paolo-KopatchinskajaAnticipando il concerto che Petrenko avrebbe diretto nella grande sala della Philarmonie, la settimana scorsa a Berlino, scrivevo che in quel programma egli avrebbe “messo insieme, e a confronto, due capolavori scritti a meno di mezzo secolo uno dall’altro rappresentativi della incredibile rivoluzione che ha caratterizzato quel breve periodo della storia della musica: dalla massima emotività espressa dalla musica tonale all’assoluto rigore della nuova scrittura dodecafonica”. Si trattava della Quinta Sinfonia di Tschaikowsky e del Concerto per violino e orchestra di Schönberg opera 36. Sono andato a sentirli e non posso fare a meno di tornare a scriverne perché, se da una parte il Concerto di Schönberg è stato strabiliante più che altro per la prestazione di quella indiavolata violinista moldava – la quarantaduenne Patricia Kopatchinskaja che ne mostra meno di trenta e che sembra letteralmente fare l’amore con il suo strumento, tanta è la passione con cui lo imbraccia e lo maneggia – la Sinfonia di Tschaikowsky è stato un evento indimenticabile.

Kirill Petrenko è un direttore al di sopra di ogni aspettativa; credo che lui e Teodor Currentzis – il direttore greco che gira il mondo con la sua orchestra russa “MusicAeterna” di Perm, sentito alla Scala tre mesi fa – siano l’inizio di una nuova era della musica classica, l’era che chiamerei del “dopo Abbado” (così come il direttore milanese fu caposcuola dell’era del “dopo Karajan”). Il loro modo di affrontare la partitura ponendosi “insieme” alla propria orchestra ha alla base una nuova visione del tempo musicale e della sua partizione: il loro tempo non ha più nulla a che fare con il metronomo, è solo un tempo interiore, in continuo divenire, mai uguale a se stesso, il cui ritmo (che non è ritmo nel senso cui siamo abituati) nasce ed è determinato dal fraseggio anziché costituirne la struttura portante.

190307_Viola-Paolo-Petrenko

E’ interessante osservare come questa idea del tempo sia coerente con le più avanzate teorie della fisica quantistica così come, per esempio, ce la spiega Carlo Rovelli nel suo bel volume “L’ordine del tempo” laddove scrive che “il tempo non è unico; c’è una durata diversa per ogni traiettoria; passa a ritmi diversi secondo il luogo e la velocità. Non è orientato: la differenza fra passato e futuro … è un aspetto contingente che appare quando guardiamo le cose trascurando i dettagli…” e più avanti “la nozione di presente non funziona … il sostrato che determina le durate del tempo…è un campo dinamico … che salta, fluttua, si concretizza solo interagendo …” ecc. ecc. E cos’è la musica che stiamo ascoltando se non l’attimo del presente fra un tempo appena passato (e già filtrato dalla memoria) e un tempo futuro (che stiamo aspettando ed immaginando)?

Per ottenere questo risultato di libertà e di immaginazione è però fondamentale una profonda intesa fra il direttore e i professori d’orchestra, una simbiosi che si realizza solo attraverso una grande e continua frequentazione; se Currentzis ha creato MusicAeterna e addirittura vive con i componenti dell’orchestra, Petrenko ha trovato nei Berliner l’humus perfetto per far crescere questa straordinaria libertà. Ma, attenzione, è una libertà tutt’altro che priva di rigore, anzi, è basata su un grandissimo rigore non rigido ma essenziale, radicato nelle viscere stesse della partitura. Rovesciando il punto di vista vien voglia di dire che bisognerebbe rivoluzionare l’attuale sistema dello starsystem internazionale – in cui i direttori girano il mondo vorticosamente, mandano avanti un direttore-sostituto e fanno una o due prove con l’orchestra prima del concerto – a favore di direttori realmente stabili, nel vero senso della parola, con programmi di lunga visione e con l’impegno di un lavoro profondo. Bisogna entrare in questa nuova era se vogliamo che la grande musica non finisca per consumarsi nella noia del suo pubblico.

Prima di Berlino si è ascoltato a Milano un altro meraviglioso concerto, quello della pianista giapponese Mitsuko Uchida, arrivata da Londra – dove vive da sempre e dove ha appena festeggiato settant’anni portati con grande sicurezza – ed approdata al Conservatorio per invito della Società del Quartetto. La Uchida, anche quando rimane lungamente assente (come questa volta, che mancava da Milano dal 2006), non si fa dimenticare per via delle tracce profonde che lascia dietro di sé ad ogni passaggio. (Aveva poco più di trent’anni quando, sempre al Conservatorio ma per le Serate Musicali, alla fine di un concerto interamente mozartiano offrì in bis, a una platea totalmente invaghita di lei, un sognante ed etereo “Andante” dalla Sonata K. 545 in do maggiore; chi c’era lo ricorda ancora con commozione!). Questa grande pianista ha dedicato tutta la vita ad approfondire la prima scuola viennese – Mozart, Beethoven, Schubert – e proprio a Schubert ha dedicato il concerto della settimana scorsa eseguendone le Sonate D. 537, D. 840, e D. 960.

190307_Viola-Paolo-Uchida

Mentre le prime due, scritte rispettivamente nel 1817 e nel 1825, risentono pesantemente dell’ingombrante presenza del tanto venerato Beethoven (che in quegli anni, a pochi isolati di distanza, scriveva le sue ultime quattro Sonate, dalla Hammer-klavier opera 106 fino all’estrema, rarefatta opera 111), la D. 960 è l’ultima di quel felicissimo trio di capolavori che Schubert scrive un anno e mezzo dopo la scomparsa di Beethoven (marzo 1827) e cioè nel settembre del 1828, appena due mesi prima di morire. Di questa Sonata la Uchida ha dato una delle più belle letture ch’io ricordi: mai sopra le righe, i “fortissimi” perfettamente controllati e i “pianissimi” di commovente dolcezza, ogni nota con un senso preciso – non poteva che essere quella – sempre essenziale al racconto che si snoda fra il presentimento della fine e i ricordi di una vita felice. Il bis, la Sarabanda dalla quinta Suite francese di Bach, è stato a sua volta un momento di grandissima emozione, quasi il commosso saluto dopo le ultime note di Schubert. Il risultato lo si è subito riscontrato con la grande e sentita ovazione tributata all’ospite.

Anche questo concerto ci ha dunque detto, seppure in altro modo, che i grandi risultati non si ottengono volando da una sala all’altra e da un autore all’altro, con quei programmi omnibus che sono ancora molto diffusi e che vogliono dimostrare la poliedricità degli interpreti; ma quanto sia invece necessario ed essenziale scavare in profondità ogni autore ed ogni pezzo – esercitando la libertà di interpretazione e sapendola controllare – per dare un senso al fatto che possiamo riascoltarlo un numero infinito di volte e ricevere ogni volta emozioni nuove e sempre sorprendenti.

Paolo Viola



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