25 febbraio 2019

VERSO IL 3 MARZO

Partecipare per cambiare. Cambiare per sopravvivere


Ci siamo. Pochi e giorni e si vota alle primarie del Partito Democratico, chi vorrà s’intende. Lasciamo pure da parte che queste non sono primarie ma elezione diretta del segretario del partito: non si seleziona il candidato ad una carica pubblica (primarie USA), ma si elegge il massimo dirigente di un’associazione privata, ancorché costituzionalmente rilevante (primarie democratiche italiane, un unicum al mondo). Lasciamola stare, ma bisognerà pur tornarci sopra, dopo il 3 marzo.

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Intanto e giustamente, dato che questo è il ballo, si moltiplicano gli appelli alla partecipazione, come le iniziative che sui territori impegnano i tre candidati. E’ diffusa e condivisa la percezione che tanto più ampia sarà la platea, tanto maggiore sarà il vantaggio politico che se ne potrà trarre. Non solo a favore del candidato che sperabilmente verrà eletto senza passare dalla successiva assemblea nazionale, ma anche e soprattutto come dimostrazione di vitalità residua del campo democratico e come fattore energizzante per le successive elezioni, europee e locali.

Perché di questo si tratta, questa volta: le primarie dovranno dare prova della capacità di resilienza del partito democratico e più in generale del campo democratico allargato.
Questo approccio è per larga parte condivisibile, ma occorre pure chiedersi se sarà sufficiente allo scopo o se la questione essenziale non sia prima di tutto eleggere un buon segretario del Partito Democratico. Non è inutile oggi avere buona memoria e ricordare come l’elezione plebiscitaria di Matteo Renzi nel contesto di una pur ampia partecipazione, non abbia garantito nulla, ed anzi abbia concorso per larghissima parte al successivo disastro politico elettorale. Certo, ridiciamocelo per l’ennesima volta, non tutto quanto è successo è ascrivibile a lui solo, ma il suo stile di direzione, la sua cifra comunicazionale, la sua visione della società e dei corpi intermedi, i suoi contenuti, hanno pesato negativamente più di altri fattori e l’essere stato eletto con larghi numeri non solo non ci ha salvato dal disastro, ma ne ha reso più forte la protervia e l’indisponibilità all’ascolto.

Dunque, partecipiamo in tanti, ma soprattutto scegliamo bene, eleggiamo un segretario che sappia riportare il partito democratico di nuovo in sintonia con il suo popolo, che sappia unire più che dividere, che sappia riaprire un dialogo proficuo con i cosiddetti corpi intermedi, che sappia ritrovare il gusto di una forte rappresentanza del lavoro, che soprattutto sappia disegnare una visione di società aperta, inclusiva, egualitaria. Che sappia quindi progettare e realizzare una politica nel segno di una forte discontinuità con i 4 anni di segreteria Renzi. Certo, cum grano salis e con senso della misura. Non possiamo neppure dimenticare o mettere in ombra le pur numerose cose giuste che la segreteria ed il governo Renzi hanno promosso, specie nel campo dei diritti civili, ché in quello dei diritti sociali, dell’eguaglianza e della tutela dei lavoratori: si sono fatti gravissimi errori o semplicemente si sono dimenticati, omessi, non pervenuti.
La lezione del 4 marzo 2018, e prima ancora del 4 dicembre 2016, non è stata ben compresa ed in troppi si attardano con speciose recriminazioni sul fuoco amico, sul “non abbiamo comunicato bene”, sul “se avessimo avuto più tempo”, tutti argomenti deboli ed anzi ostacoli ad un buon apprendimento. Dunque, il 3 marzo serve la lucidità di giudizio che ci porti a dare il sostegno al candidato che meglio ha appreso questo insegnamento e che con maggiore credibilità si propone per superare questa stagione passata.

Per conto mio, ritengo che Nicola Zingaretti abbia il maggior numero di chance non solo per raggiungere il più alto grado di consenso, ma soprattutto per dare sostanza al segno di un cambiamento deciso ed al tempo stesso non settario.

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Spingono verso la sua figura ragioni di contenuto e ragioni di credibilità, non fosse che per il solo motivo che dei tre appare l’unico a cui non si può addebitare la condivisione attiva o almeno la compartecipazione al gruppo dirigente che ha guidato il PD negli ultimi anni. Se Giachetti è organicamente uomo pienamente aderente alla costituency storica del renzismo, e se Martina ha condiviso la responsabilità di gestione del partito, di Nicola Zingaretti si può solo dire che appartiene a quei pochissimi che nel 2018 hanno battuto centrodestra e 5 stelle, costruendo una buona proposta di cambiamento sociale ed una strategia di alleanze ben lontana dal clima ormai superato del maggioritario.
Certo, se come appare da alcune dichiarazioni, già oggi qualcuno, fiutato il vento, si smarca dal tessuto unitario che ancora fino a qualche giorno fa rivendicava quasi in esclusiva, allora mantenere le promesse di un quadro unitario sarà più difficile. Se qualcuno dice ora, dopo due mesi di campagna, io “di Zingaretti non mi fido”, allora dovrebbe spiegare per primo il motivo per cui ci si dovrebbe fidare di lui. Non è di queste fesserie e pseudofurbate che hanno bisogno gli iscritti e gli elettori del PD, a partire proprio da quelli che pure si sentono poco in sintonia con il clima prevalente: “delegittimare” fin d’ora la figura eletta: non è un buon modo (sic) per affrontare il dopo primarie e riconnettere un quadro che guardi più al futuro che al passato.
Un quadro dove l’impianto verticistico correntizio impresso dalle primarie alimenta la litigiosità permanente del PD, rendendo strutturalmente precaria la vita del partito democratico. Si ha poi un bel dire “partecipazione”, ma se la chiamata al voto di iscritti ed elettori è la foglia di fico dietro cui si nasconde, sempre meno però, una pratica di selezione del gruppo dirigente che poco include e molto esclude, che poco rappresenta e molto impone, che poco condivide e molto requisisce della legittimità democratica, allora anche questa bella bandiera del campo democratico trova sempre meno vento nelle sue vele. Per Zingaretti, ma ad onor del vero anche per Martina e per lo stesso Giachetti, il partito va rifondato. Come lo dicono anche, ma accanto a parole d’ordine pur significative, continua a persistere un’opacità di fondo quanto al contrasto della prassi eterodiretta attraverso cui oggi si seleziona il gruppo dirigente, ed a tutti i livelli.
Partecipare alle primarie ha anche questo segno, di accompagnare con una voce ampia il processo di rifondazione di un partito come impresa collettiva e non come scenario di avventure individuali o di cordate opache, protagoniste opache della direzione del partito.

Come tanti altri, desidero solo un partito normale, dove gli iscritti scelgono i propri rappresentanti, dove la linea politica è discussa ampiamente, dove i dirigenti fanno sintesi e non divisione, dove il politico torni a vivere in uno stretto rapporto con il sociale che intende rappresentare. Un partito normale, ricordando che, come diceva Lucio Dalla “……. l’impresa eccezionale, caro amico, è essere normale”.

Partecipare alle primarie non sarà la panacea per tutti i mali del PD, ma certo potrà aiutare a trovare con il segretario giusto anche la strada giusta.

Giuseppe Ucciero



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