8 febbraio 2019

LA VERDI FESTEGGIA FABIO VACCHI

I settant'anni di un grande maestro


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Di Fabio Vacchi ho scritto più volte nella rubrica “musica” di questo giornale, a cominciare da quando, nell’ottobre del 2015, l’ho ascoltato per la prima volta, proprio alla Verdi, nel melologo “Sull’acqua (sotto di noi il diluvio)”, con un bellissimo testo di Michele Serra; ne fui profondamente colpito e scrissi con sincero entusiasmo di aver provato “l’inebriante sensazione di assistere alla nascita di una musica che resterà nella storia”. Da allora non ho perso un concerto in cui si sia eseguita musica sua, dandone sempre conto i miei lettori, fino all’ottobre scorso quando si ascoltarono le sue poetiche “Love’s Geometries al Teatro Dal Verme.

Ho quindi salutato con sincera emozione l’iniziativa dell’Auditorium che ha tributato a Vacchi un importante riconoscimento mettendo in programma una settimana di sue musiche, facendoci ascoltare in prima esecuzione italiana (anticipata tre mesi fa solo dalla Carnegie Hall di New York) il nuovo Concerto per violino e orchestra “Natura naturans” e facendolo precedere da due serate al MAC di piazza Tito Lucrezio Caro con sue opere cameristiche, per piccoli organici.

Perché tanto entusiasmo per questo autore che proprio in questi giorni compie 70 anni (auguri Maestro!) e di cui, come sempre accade per gli artisti seri, si parla poco nonostante le sue opere siano state eseguite e replicate in tutti i continenti e certune – come le colonne sonore di Il mestiere delle armi e di Cento chiodi di Ermanno Olmi – abbiano raggiunto una consistente fama? La risposta riguarda in qualche modo l’intera vicenda della musica contemporanea che, come si sa, gode di scarsissima considerazione da parte della maggioranza del vasto pubblico che segue concerti ed opere liriche. Il quale pubblico tende normalmente a fare di tutt’erbe un fascio e a rigettare in toto tutta la musica scritta da settant’anni a questa parte, senza avere la voglia di separare il grano dal loglio.

La musica di Vacchi è grano, mentre il mondo della musica colta contemporanea è purtroppo piena di loglio.

Proverò a dare una risposta usando le parole di Oreste Bossini che scrive nel programma di sala “L’esperienza di quegli anni (gli studi accademici ed il Conservatorio di Bologna) ha permesso a Vacchi di intravvedere una strada per la modernità diversa da quella della precedente generazione, troppo imbevuta di astrazioni ideologiche e spesso incapace di ascoltare il battito del cuore”. In queste poche parole Bossini dice tutto dei compositori che per decenni non hanno saputo ascoltare e tantomeno parlare al cuore delle persone, a differenza di Vacchi che scrive, nel programma di sala del concerto nuovayorchese in cui si presentava il Concerto per violino in prima mondiale, di essere spinto dall’impulso di “… avvicinarsi sempre di più a una scrittura che non dimentichi mai, per ragioni puramente strutturali e soggettive, il rispetto della nostra fisiologia, della nostra percezione, della nostra natura”.

Questo è dunque ciò che differenzia la musica di Vacchi dal mare magnum della musica contemporanea (che contemporanea non è più di tanto se si pensa che il culmine della sua invasione nelle sale da concerto si è verificato diversi decenni fa), il fatto che non si perde in astratte ricerche sul mero linguaggio estetico ma va diretto al cuore del contenuto musicale, vale a dire alle emozioni (intrinsecamente musicali e dunque per loro natura profonde) che vuole trasmettere agli ascoltatori. I suoi “Luoghi immaginari” – una suite composta da un Trio, un Quartetto, un Quintetto, un Settimino e un Ottetto composti fra il 1987 ed 1992, gli anni in cui regnava indiscussa la non-musica – è un susseguirsi di confidenze, di confessioni, di sonorità che non vogliono sorprendere, colpire o scuotere l’ascoltatore ma parlargli, accarezzarlo, prenderlo per mano e farsi accompagnare nelle profondità dei suoni. Raccontano le emozioni dell’Autore con lo stesso spirito con cui Musorgskij raccontava i suoi Quadri di un’esposizione o con il quale Calvino ci faceva entrare nelle sue Città invisibili.

Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città – scriveva Marco Polo – non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. La stessa cosa si può dire della musica. Non basta l’invenzione di un linguaggio musicale per dare risposte alle nostre domande. La musica di Fabio Vacchi le risposte le dà perché l’autore si è posto le domande.

Il Concerto per violino e orchestra ha tenuto con il fiato sospeso la sala grande dell’Auditorium per due sere intere, venerdì e domenica, e non ho mai sentito tanti applausi per un’opera di grande modernità, ascoltata per la prima volta e tanto complessa, difficile ed ardita: complessa perché la ricchezza dei temi, il loro inestricabile gioco e le loro continue intersezioni ed interazioni non consentivano di rilassarsi un minuto. Quanto alle difficoltà era molto visibile sia l’impegno di Domenico Nordio (che ha letteralmente stremato il suo violino) che quello di Carlo Boccadoro e dell’orchestra della Verdi, che ce l’hanno messa tutta con ottimi risultati. Dopo un magmatico primo tempo Allegro moderato, nel quale si faticava a percepire l’emergere di una autonoma melodia nel pullulare di infiniti frammenti, l’Andantino cantabile è arrivato alle nostre orecchie come un canto d’amore mai sentito prima d’ora, diverso da ogni altro riferimento musicale, pieno di poesia e di tensione emotiva; infine il Presto brillante del terzo ed ultimo movimento pareva un orgiastico sabba dal ritmo furibondo (in ciò aiutato dal mito demoniaco del violino) qua e là punteggiato da sincopati che sembravano alludere al jazz. Se l’incubo del compositore è la noia ch’egli teme di indurre nell’ascoltatore, Fabio Vacchi si rassicuri, il suo concerto per violino non ha consentito ad alcuno di esserne preda.

Due parole sulla compagine orchestrale e sugli elementi singoli che hanno eseguito le opere cameristiche al MAC; tutti veramente esemplari. Alle prese con musiche che non appartengono al suo tradizionale repertorio, la Verdi ha confermato che – nonostante dopo Chailly sia stata seguita da direttori stabili non sempre di grande levatura – è rimasta un’ottima orchestra, composta da ottimi musicisti anche quando presi singolarmente. E’ una risorsa importante della città di cui la città dovrebbe farsi carico. Così come dovrebbe andare fiera di avere fra i suoi cittadini questo straordinario compositore che ha scelto di vivere qui e che da qui proietta la migliore musica italiana in tutto il mondo.

Paolo Viola



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  1. Vittoria MoloneCome sempre articolo straodinario per contenuto e stile. Sarà stato contento Fabio Vacchi per questo meritato riconoscimento così calorosamente espresso. Ho apprezzato anche il commento di Bossini che, tra l'altro, seguo sempre con piacere a radio 3 suite.
    20 febbraio 2019 • 11:24Rispondi
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