1 febbraio 2019

SOLISTI-DIRETTORI

Chi fa da sé fa per due, talvolta


Più volte, in queste note, ho criticato quei pianisti – ma non solo, lo fanno anche altri strumentisti – che nella realizzazione di concerti per solista e orchestra suonano e dirigono contemporaneamente. Ho scritto che non basta una vita per suonare uno strumento o dirigere l’orchestra a livelli di eccellenza, con la necessaria autorevolezza e competenza, figuriamoci quante vite servirebbero per arrivare a far contemporaneamente l’una cosa e l’altra! Aggiungo che nei concerti per strumento solista ed orchestra, solista ed orchestra sono due entità diverse che devono dialogare fra loro o addirittura competere (concerto viene da concertare che non significa concordare, come spesso si crede, ma gareggiare, combattere, “cum certamen”), e come può un unico soggetto interpretare le due parti contrapposte? Ebbene, nella settimana appena trascorsa due eventi, con mia grande sorpresa, hanno clamorosamente smentito questa riflessione e dimostrato che invece si può, e si può farlo anche bene.

190201_Viola-01Il primo evento è stato il Concerto in la minore per pianoforte e orchestra opera 54 di Robert Schumann, eseguito e diretto da Alexander Lonquich all’Auditorium con l’Orchestra Verdi. Una esecuzione assolutamente fuori dal comune per la magia, la poesia e la profondità di pensiero che pianoforte e orchestra, insieme, sono stati capaci di creare e di trasmettere al pubblico. Lonquich ha eseguito l’opera senza indulgere al minimo virtuosismo, esprimendo grande libertà nei tempi e una ancor più grande intimità nel fraseggio, mentre l’orchestra lo seguiva in totale simbiosi e senza alcuna rigidità ma, al contrario, con la morbidezza che le derivava dalla visibile gioia di suonare insieme, di ascoltarsi fra le varie sezioni e di ascoltare il pianoforte.
Si è avuta la netta sensazione che il pianista-direttore abbia così potuto esprimere fino in fondo il proprio pensiero musicale, senza doverlo condividere con altri ma solo con chi suonava “insieme” a lui; contraddicendo clamorosamente la mia convinzione, incarnava entrambe le parti dialoganti sintetizzando l’intesa fra solista e orchestra ed anche – cosa ancor più rara – fra contenuto e forma dell’opera. Vincitore assoluto è stato proprio Schumann di cui si è ascoltata una pagina molto più intima e commovente del solito, intrisa della sua romanticissima passione e ricondotta a quell’unità che proviene espressamente dall’Autore.

Di quel concerto bisogna però anche dire quanto infelice sia stata la scelta di eseguire subito dopo la potente e teutonica Nona Sinfonia in do maggiore di Schubert, una delle sue opere più massicce e monumentali, che – a fronte del romantico ardore, della finezza ed eleganza che solo Schumann sa offrire, e nonostante gli ammirevoli sforzi e l’indiscutibile abilità di Lonquich – non poteva non apparire terribilmente greve. La “divina prolissità” di Schubert è quasi insopportabile in quest’opera che porta con sé il dramma, mai risolto, del confronto con la Nona di Beethoven; Schubert aveva ascoltato l’ultima sinfonia di Beethoven quattro anni prima di morire e scrisse questa sua Nona in quegli ultimi pochi anni durante i quali moriva anche Ludwig. (Una curiosità: Schubert non riuscì a farla eseguire e ad ascoltarla, e quel prezioso spartito scomparve fino a quando lo ritrovò proprio Schumann, dieci anni dopo la morte dell’Autore. Fu eseguita in prima assoluta l’anno successivo, diretta dall’amico Mendelssohn, in quel tempio della musica che era ed è la Gewandhaus di Lipsia).

190201_Viola-02Tornando al tema solista-direttore, il giorno dopo l’episodio Lonquich-Schumann il miracolo si è ripresentato in un contesto del tutto diverso, vale a dire al Conservatorio dove András Schiff ha suonato e diretto tre opere di Mozart in un concerto dedicato ad Antonio Magnocavallo, il presidente della Società del Quartetto mancato, come abbiamo riferito, la settimana prima.
L’accoppiata Schiff-Mozart si è presentata molto diversa da quella Lonquich-Schumann: innanzitutto perché siamo in due mondi molto lontani fra loro in cui si confrontano il vertice assoluto del Classicismo (Mozart) con quello, altrettanto assoluto, del Romanticismo (Schumann). Ma anche perché Schiff, a differenza di Lonquich, dirigeva un’Orchestra creata vent’anni fa proprio per eseguire i concerti per pianoforte e orchestra di Mozart e messa insieme personalmente da lui, con validi strumentisti molto legati fra loro ed al loro direttore. Un’orchestra che addirittura porta nascosto il suo nome – “Cappella Andrea Barca” – che è la spiritosa traduzione di András Schiff.

In questo caso la simbiosi fra direttore e solista era assolutamente perfetta, tanto che il direttore dirigeva abbastanza poco e l’orchestra dimostrava un affiatamento esemplare sia al suo interno che con il pianista. Inoltre c’è da credere che abbiano provato a lungo e replicato chissà quante volte i due Concerti per pianoforte e orchestra (K. 450 in si bemolle maggiore e K. 453 in sol maggiore) e la Sinfonia (K. 543 in mi bemolle maggiore) eseguiti l’altra sera.

Schiff ha eseguito i due concerti sul suo Bösendorfer d’epoca, quasi sempre senza pedale, senza mai andare sopra le righe, con grande amabilità e – specialmente negli Andanti che lui tende a trasformare in Larghi – con un magico effetto di conversazione fra strumenti, in certi momenti quasi una sentimentale confessione. E anche qui la coincidenza delle figure di direttore e di solista ha prodotto miracoli ed ha dimostrato come, se si riesce a tenere tutto insieme, si possa raggiungere una simbiosi perfetta fra pianoforte e orchestra.

A riprova di queste considerazioni bisogna dire che lo Schiff direttore della Sinfonia, sul podio e senza strumento, è stato un po’ meno convincente. Molto bello il suono orchestrale, altissimo il livello di intesa fra i musicisti, suggestiva oltre ogni limite l’atmosfera mozartiana, si sentiva però l’assenza di un pensiero forte ed univoco che desse senso al tutto ed imprimesse un segno inconfondibile a quella specifica esecuzione. E così, nonostante la piacevolezza dell’ascolto, a qualcuno è sottilmente tornato alla mente l’“Ofelè fa el to mesté” di antica memoria …

Paolo Viola



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