15 gennaio 2019
ZINGARETTI A MILANO
Rito ambrosiano e messa democratica
La profonda crisi della sinistra e l’incalzare drammatico della destra mondiale stimolano a trovare urgenti rimedi, replicando le poche esperienze di successo sopravvissute alla mattanza elettorale degli ultimi anni. Sabato scorso, la visita a Milano di Nicola Zingaretti ha offerto una buona occasione per riproporre il cosiddetto “modello Milano” come il migliore degli esempi per la rinascita democratica. L’evento è stato del resto costruito come incontro tra l’autorevole candidato PD e la comunità democratica ambrosiana, rappresentata da protagonisti della società civile variamente assortiti con quelli della politica locale. Attorno alle “sette tematiche sette” tratte dalla mozione, si sono succeduti dalla mattina fino al tardo pomeriggio molti contributi, scaldando la platea come prevede la liturgia dei concerti rock: si concede il clou solo quando molti gruppi hanno preparato cuori ed orecchie.
Una platea consapevole e che, orgogliosa della sua appartenenza, ben si presta ad operazioni che valorizzino in chiave nazionale i tratti più significativi di una esperienza che dura dal 2011. Nicola Zingaretti, da abile comunicatore, l’ha ben solleticata, ponendosi a specchio e dialogando soprattutto con i maggiori protagonisti della stagione milanese: Giuliano Pisapia e Beppe Sala. Una stagione di cui a ragione si colgono i tratti al tempo stesso anticipatori ed “eccentrici” rispetto alla vicenda nazionale, coltivando la speranza che il “rito ambrosiano” sia sufficiente a rinnovare la messa democratica, insufflando nelle stanche narici romane il suo fresco respiro innovatore.
Si dice, molto a ragione, di come questo rinnovamento debba ispirarsi alla cifra “partecipativa”, ragione sociale essenziale dell’innovazione ambrosiana, alla cultura del “noi” contrapposto a quella dell’ “io”, al sempreverde solidarismo milanese ed a come sappia coniugarsi con l’imprenditorialità e la cultura del fare: in sintesi di come Milano formi il paradigma di una proposta politica capace di accoppiare e tenere uniti sviluppo e solidarietà, merito e prossimità, eguaglianza e spirito di competizione. E’ sembrato a molti che tutte le voci fossero come un coro a cappella, e certo l’atmosfera da Convention non si prestava ad interventi sul tono del controcanto.
Così, al termine, Nicola Zingaretti ha come raccolto le lodi al Signore e le ha abilmente rivolte a sé ed al suo progetto, del quale del resto molte intonazioni si ispirano allo stesso spartito.
Come Arcipelago Milano sarebbe molto facile seguire il tono prevalente, sommando lode a lode, ma a noi tocca non di suonare la grancassa nei dì di festa, ma, anche laddove pure si condividano le ragioni della speranza, di esercitare la funzione critica, consapevoli che solo questa, anche se ingrata, è la nostra prima ragion d’essere. E dunque, cosa pensiamo di questa operazione di ancoraggio della candidatura Zingaretti al modello Milano?
E dove e quali ne sono le condizioni di successo e le risorse?
Intendiamoci, se qui si intende solo e principalmente fare di Milano un esempio più etico che politico, più generico che specifico, più vicino al concetto di “Milano capitale morale” che di una strategia convincente di rinnovamento, allora bene, bravi, bis, e non saremo certo noi a guastare l’atmosfera. Se invece, come noi crediamo, questo ispirarsi al “rito ambrosiano” richiede ed anzi presuppone per il suo successo, o almeno per una sua utilità, di metterne in luce i tratti politico culturali essenziali e di valutarne la trasferibilità al contesto nazionale, allora si dovrà mettere da parte applauso e grancassa ed affinare l’analisi critica. Proviamo a suggerire alcune questioni.
La prima e forse la più rilevante consiste nella stretta relazione tra “spazio partecipativo” ed architettura politico istituzionale.
La stagione della partecipazione come forza propulsiva della rinascita democratica di Milano è stata resa possibile, certo dalla spinta entusiasta di migliaia di persone, ma prima di tutto dalla combinazione tra due fattori: il profilo istituzionale del Sindaco, come mediatore e facilitatore del rapporto tra forze politiche e società civile, e la disponibilità del PD a mettere in gioco la posizione.
Giuliano Pisapia e Beppe Sala hanno vinto le elezioni e sono così diventati primi cittadini non come uomini del PD, ma come outsider capaci, proprio per questo, di mettere in connessione mondi (politica e sociale) non più dialoganti a sufficienza o, se si vuole, per niente.
E questa loro funzione non è stata inventata dal nulla, né si è imposta da sé o per caso su di una materia informe: al contrario, la figura istituzionale del sindaco, introdotta nel 1998, è stata la condizione essenziale per la loro vittoria di mediatori tra mondi. Certo ciascuno con le proprie origini e profili: se Pisapia è stato l’uomo della rinascita della partecipazione attiva, Sala è apparso all’inizio come uomo del pragmatismo imprenditoriale.
In ogni caso, dobbiamo pur chiederci se e come sarebbe stata possibile questa stagione se l’architettura politico istituzionale comunale non l’avesse favorita e consentita.
E se questo è vero, chiediamoci allora se e come questa innovazione possa trovare terreno fertile anche nel contesto nazionale, in un quadro istituzionale dove la legge proporzionale consente e spinge tutti i soggetti, politici ed anche sociali, più che a trovare un forte candidato unitario, a formare se va bene “cartelli” validi solo fino al giorno delle elezioni, non essendovi poi alcuna forma istituzionale capace di tenere assieme, anche con la forza bruta delle dimissioni-ricatto, forze culturali, sociali e politiche disparate. Qui le declamazioni morali non bastano.
Se si parla di condizioni istituzionali per la trasferibilità di un successo, onestà intellettuale vorrebbe che si procedesse un po’ più a fondo anche nella valutazione della positività a tutto tondo dell’esperimento amministrativo milanese.
Certo a Milano l’onda gialloverde si è affievolita, ma si tende a scordare che ha colpito e duramente anche qui, soprattutto nelle periferie. Qualcuno ricorda che Beppe Sala ha vinto con il 51,7% contro il 55,11 % di Pisapia e che ben 5 degli 8 municipi non centrali sono stati aggiudicati alla destra? Si ha un bel dire di Milano democratica, ma anche qui, come a Roma, Bologna, Firenze, Genova, il partito democratico e la sinistra hanno vinto più nelle zone centrali e semicentrali che in periferia.
E dunque, di che si parla esattamente quando si dice del vincente modello milanese? Non è che il pur doveroso riconoscimento dell’ampiezza e della qualità del welfare ambrosiano ci preclude la percezione di una crisi sociale così ampia e profonda da rischiare di metterlo in mora?
Gli amici che frequentano i mercati rionali e tastano il polso ai nostri concittadini di periferia segnalano forti criticità e non si vorrebbe mai che mentre si tessono le lodi al bel modello, questo si sfrangiasse e lacerasse sotto i nostri occhi.
Resta forte e diffusa la paura del futuro e contro potrebbe non bastare la grande armata del welfare ambrosiano. Servono ampie politiche nazionali per l’eguaglianza dei diritti sociali e per la dignità del lavoro, grandi risorse per contrastare nel vivo della vita concreta delle persone la narrazione securitaria della lega e del populismo avventurista che gli tiene bordone.
Molte altre questioni potrebbero essere sollevate, ma a noi stava a cuore introdurre nella discussione alcuni spunti utili a migliorare la nostra esperienza milanese ed a rendere più comprensibile le condizioni per fare del “rito ambrosiano” un concreto contributo all’innovazione ed al successo della messa democratica.
Giovanni B. Piatti
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