4 gennaio 2019
LA SCOMPARSA DI UN ARCHITETTO NAPOLETANO
Un creativo, un missionario lontano dai riflettori
4 gennaio 2019
Un creativo, un missionario lontano dai riflettori
Approfitto delle festività appena trascorse – durante le quali non è facile sentire buona musica perché ce n’è poca (a meno di non accontentarsi dei soliti concerti di Capodanno) o perché si è in vacanza in luoghi senza musica – per riflettere sulla vicenda di un amico che ci ha lasciato in questi giorni in un silenzio sconcertante.
Fabrizio Caròla è stato un architetto importante, totalmente estraneo al mondo delle riviste di architettura, che non ha realizzato importanti opere pubbliche in Italia e neppure in altri paesi europei, e non ha mai aspirato a una cattedra universitaria; era, come si dice oggi, un “creativo” ma era soprattutto una testa pensante e tutte le sue opere sono fortemente intrise di profonde e attente riflessioni. Ha diviso i suoi giorni fra Napoli, dove è nato da una famiglia di noti costruttori, e l’Africa alle cui sofferenze ha dedicato la massima parte dell’impegno professionale e non solo.
Scoprì il continente africano quando, da poco laureato, ebbe l’incarico di studiare un piano di sviluppo delle aree rurali nel Marocco; lo girò a cavallo, in lungo e in largo, e il piano che porta la sua firma fece scuola in tutta l’area sahariana. Non riuscì più a guarire dal potente mal d’Africa da cui fu subito colpito e tutte le sue energie (e persino le sue sostanze) furono da allora impegnate in progetti tesi a riscattare quel mondo dai danni inferti dal capitalismo più ottuso, europeo e americano. In Africa ha realizzato scuole, mercati, ospedali – come quello per le bambine-madri vendute dai genitori – centri per la medicina tradizionale e centri di formazione per orfani di guerra, alloggi “minimi” per i Tuareg e i Dogon costruiti con materiali poveri e locali utilizzando – e inventando – tecniche alla portata delle popolazioni indigene.
Sempre e soltanto per queste sue straordinarie opere di architettura “povera” ha meritato premi e riconoscimenti internazionali come l’“Aga Kahn Award”, un Compasso d’oro alla Triennale di Milano, il premio per la “Architettura sostenibile” a Parigi e quello dell’UIA (Unione Internazionale degli Architetti) a Tokyo. La sua fama si allargò a tal punto che ebbe l’incarico da Werner Herzog di progettare e realizzare – in terra battuta e legno, e in soli tre mesi! – il Palazzo Reale per il film “Cobra verde”.
Ne scrivo non tanto per l’amicizia che ci legava – sentimento che non meriterebbe di essere reso pubblico – quanto per il curioso legame che Fabrizio ha avuto con Napoli e Milano, le due uniche città europee che hanno visto realizzate sue opere sperimentali e didattiche. Non lontano da Napoli, dove un vescovo illuminato gli ha offerto in comodato un’area edificabile, ha creato una scuola di architettura “essenziale” realizzando con gli allievi giunti da ogni dove un intero villaggio di cupole ogivali in mattoni crudi; a Milano, nel cortile del Politecnico, chiamato dal professor Gianni Scudo, ha realizzato insieme agli iscritti alla facoltà di Architettura una grande ogiva destinata a essere demolita non appena finita l’esercitazione e che invece ha resistito per anni, grazie alle pressioni degli studenti e degli stessi professori che l’hanno difesa ritenendola uno straordinario esempio di architettura sostenibile (quando questo termine non aveva ancora subito l’inflazione da cui oggi è divorato).
A Napoli ha creato l’associazione NEA (Napoli Europa Africa) una onlus vivacissima che si occupa di diffondere la nostra cultura fra gli immigrati africani e la cultura dell’Africa ai nostri ragazzi. E circondato da quei ragazzi, nella sua casa napoletana, è scomparso pochi giorni fa ormai prossimo ai novant’anni, assistito dalla moglie somala molto più giovane di lui che venne alla ribalta qualche anno fa quando si mise personalmente in gioco come protagonista di una coraggiosa campagna contro l’infibulazione.
È stato un architetto vero, a tutto tondo, come ha sempre desiderato e tenacemente voluto essere, ed ha dedicato l’intero suo lavoro e la sua stessa vita agli africani più bisognosi di sostegno. Peccato che queste storie non vengano raccontate quanto e come meriterebbero; se i media se ne impossessassero – penso a quante cose ci vengono raccontate sul lavoro e i misfatti delle cosiddette archistar – forse ne verrebbe illuminato e umanizzato perfino il nostro truce Ministro degli Interni!
Paolo Viola
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