7 dicembre 2018
L’ATTILA DEGLI ANNI TRENTA
Per la "Prima" un'opera "Kolossal"
Dell’inaugurazione della stagione lirica alla Scala si è tanto detto e scritto in questi giorni che è difficile aggiungere altro. E si sono dette e scritte soprattutto cose positive: sulla musica di Verdi, sulla direzione di Chailly, sui cantanti, sulla scenografia ed anche sulla regìa. Tranne qualche voce leggermente critica, come quella – un po’ criptica – di Angelo Foletto su Repubblica, per il resto le lodi sono state sperticate. D’altra parte non è facile esprimere dubbi e perplessità nei confronti di una prima coronata da un così strepitoso successo di pubblico. Gli ormai famosi 15 minuti di applausi alla fine dell’opera sembrano aver messo tutti a tacere.
Confesso però che ho trovato più straordinari gli 8 minuti di applausi tributati a Mattarella all’inizio dello spettacolo, battimani calorosissimi e per nulla scontati, che hanno costretto un divertito Chailly a rinviare l’attacco dell’inno di Mameli; platea, palchi e gallerie, tutti in piedi, senza eccezioni, rivolti verso il palco reale dove il nostro Presidente, imbarazzatissimo, accompagnato dalla figlia e dal sindaco Sala, continuava a far timidi cenni di ringraziamento che sembravano dire “basta, non esagerate”. Un gesto di chiarissimo significato politico che sembrava a sua volta voler dire “grazie di esserci” e forse anche “grazie di essere qui con noi a Milano”. E’ vero che non era una platea molto popolare (ma gli applausi sono stati tanti anche nella piazza, da parte di chi l’opera l’avrebbe vista sui grandi schermi in Galleria); era però composta da persone che quel gesto lo hanno voluto fortemente, consapevoli del suo valore e soprattutto del suo significato politico.
Ciò premesso, e venendo all’opera, non si può certo disconoscere l’enorme impegno nella sua realizzazione; ogni aspetto della rappresentazione era curatissimo, preparato con rigore e all’altezza di un Teatro che a buon diritto reclama il ruolo di leader nel mondo della lirica; tutto era obiettivamente straordinario, grandioso, perfettamente up-to-date. Perfino troppo, perché questa magnificenza e questa ridondanza, questi effetti speciali – le proiezioni, le luci, i cavalli, il ponte, il camion, ma anche i fucili, le pistole, i costumi, il sangue – avevano un devastante effetto collaterale, quello di distrarre dall’ascolto della musica. Beati quelli che l’hanno ascoltata per radio, che hanno sicuramente capito e gustato di più questa musica piena di passione del giovane Verdi e ricca di tanti risvolti psicologici. E’ vero, in Attila non c’è un’aria tanto cantabile da diventare celebre, come quelle che Verdi ci ha regalato negli anni della maturità, ma c’è la freschezza, l’originalità, la creatività dell’esordio verdiano in un momento in cui qualsiasi accenno al passato della storia d’Italia diventava subito incandescente.E proprio qui, nei riferimenti storici, le cose a mio avviso non hanno funzionato come si deve. A parte la banalità di vestire ogni forma di tirannide e di violenza politica con gli abiti delle SS o dei Repubblichini, cosa c’entra il nazifascismo con Attila e cioè con lo scontro fra Stato e Chiesa, fra potere temporale e potere religioso? E quella festa per il matrimonio fra Attila e Odabella, che avrebbe voluto essere un’orgia barbarica e – per ipocrita decenza – è diventata una festa di carnevale in un ospizio per malati di mente? Non bastano gli accenni alla “Caduta degli Dei” di Visconti o al “Portiere di notte” della Cavani, o ancora al “Salon Kitty” di Tinto Brass, per dare all’opera una patina di cultura “alta”. Se si vuole ambientare l’opera in un’epoca diversa, renderla più “moderna”, occorre reinterpretare il libretto con grande saggezza affinché esso non perda la sua autenticità profonda. Fu esemplare il Fidelio beethoveniano dato alla Scala con la direzione di Barenboim prima e di Myung-Whun Chung poi, sempre per la regìa di Deborah Warner; si svolgeva in una fabbrica dismessa dei giorni nostri anziché “in una prigione di Stato spagnola ad alcune miglia da Siviglia alla fine del settecento” come la voleva Beethoven. Ma quanta coerenza logica vi si trovava nella trasposizione, e quanto riguardo agli aspetti sociali e culturali dell’originale! Tutto funzionava così bene che l’atmosfera creata dalla Warner sembrava ancor più fedele al libretto di quella indicata dall’Autore.
Insomma, caro Livermore, noi ascoltatori – ai quali, non dimentichiamolo, l’opera è destinata – non neghiamo ai registi la libertà di reinterpretarla e ricrearla ex-novo, anche cambiandone l’ambientazione ed aggiungendovi nuovi significati, ma pretendiamo che non ne sia stravolto il contenuto, che sia altrettanto credibile dell’originale, che ci aiuti ad entrare nella testa dell’autore ed a comprenderne l’essenza musicale. Questo Attila che sembra Hitler, o questi Unni che maneggiano con la stessa disinvoltura i pugnali dei barbari e le pistole d’ordinanza della Wehrmacht, distraggono dalla musica – che è la ragion d’essere dell’opera – e non offrono alcun contributo alla sua comprensione. Non basta aver creato una scena grandiosa, con magnifici filmati che ne amplificano la suggestione, per giustificare queste licenze. Per favore, un po’ più di umiltà e di rispetto, per gli autori e per gli spettatori. Grazie.
Paolo Viola
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