6 novembre 2018

MILANO STA ASPETTANDO

Il fiato sospeso di fronte alla devastazione del Governo


L’atmosfera milanese degli ultimi tempi ha qualcosa di particolare, una sorta di fiato sospeso, di attesa. Per i cultori della letteratura italiana del ‘900 fa pensare a Il deserto dei tartari di Dino Buzzati. Chi, cosa stiamo aspettando? Parlare di politica con gli amici, anche con chi non la pensa come noi, è diventato difficile: Salvini, Di Maio, il Pd, lo spread. Dopo le prime battute cade il discorso, una sola domanda sembra accomunare tutti: come andrà a finire?

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Molti tra i milanesi si danno una risposta che è nel loro DNA: “Cerchiamo comunque di fare al meglio quello che sappiamo fare, lavorare, aiutare, accogliere, far crescere la città, amministrarla.”. Tutto alla perfezione? No, ci mancherebbe, ma comunque meglio che in altre grandi città italiane e sottolineo “grandi” perché le medie e le piccole sono un altro mondo: in quella dimensione risolvere i problemi è più semplice.

Milano sta riprendendo il suo ruolo di “capitale morale”? Probabilmente sì, in questi momenti tanto difficili per il Paese. Capitale morale la definì nel 1881 Ruggero Bonghi, direttore del quotidiano milanese La Perseveranza e a questo modo di dire sono stati appiccicati con l’andare degli anni molti significati – onestà? laboriosità? – fino ad appannarsi definitivamente con Mani Pulite. Tutti dissero: “Milano non è più la Capitale morale”.

Oggi sembra di capire che di fronte al disastro dell’attuale Governo che rischia di travolgere il Paese isolandolo dal resto del mondo spingendolo verso una crisi economica drammatica – tra i primi danneggiati proprio Milano – i cittadini riscoprono i cosiddetti “valori”: la Capitale morale.

Quali i segnali? Molti: alcuni forti, altri deboli.

Il vecchio solidarismo di matrice socialista si è trasformato in una miriade di iniziative a sostegno dei meno fortunati: c’è chi si fa carico di mantenere il verde, chi raccoglie fondi per mille cause meritorie, chi vuol partecipare alla gestione dei beni pubblici ma anche un fiorire di iniziative culturali, spesso di nicchia, e chi organizza dibattiti. Mille fenomeni, mille segnali.

Due sono quelli più forti: la politica di accoglienza degli immigrati e il mai domo antifascismo milanese. Questa è la vera distanza di Milano dall’attuale Governo, non a parole ma nei fatti.

Sull’accoglienza degli immigrati molto si fa e si è fatto ma siamo al nodo vero: quello dell’integrazione che vuol dire molte cose, dall’insegnamento della lingua alla condivisione sentita da parte degli immigrati dei principi e dei valori della nostra comunità e per finire trovar loro un lavoro in un momento in cui scarseggia per tutti e non si sa cosa possa essere perfino per noi già cittadini. Una scommessa difficile.

Sull’antifascismo quel che Milano può fare lo fa sempre a cominciare dal vietare le plateali manifestazioni di nostalgici. Ma anche qui ci sono delle difficoltà: spiegare senza equivoci ai più giovani di cosa parliamo quando parliamo di antifascismo. In un Paese deideologizzato parlare di una ideologia è arduo pure se questa sia detestabile. In ultima istanza forse basterebbe illustrare ai più giovani la Costituzione, c’è dentro quasi tutto: è nata dall’antifascismo.

Il perché si parli tanto della riapertura dei Navigli forse trova la sua ragione in questo vuoto di attesa: di qualcosa bisogna pur discutere, dimenticando che tra le virtù milanesi c’è anche, se non soprattutto, la parsimonia. Di tempo, di denaro. Perché perderne? Non è da “capitale morale”.

Luca Beltrami Gadola



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