13 febbraio 2018

musica – IL PIANISMO ITALIANO A LUGANO


Fabio Vacchi

Fabio Vacchi

Sono molto imbarazzato perché per la terza volta in un mese torno ad occuparmi dello stesso compositore; si tratta, come ho scritto nelle ultime settimane, di un autore che mi ha colpito in modo particolare, che ha fortemente attirato la mia attenzione e che sta incrinando – o forse travolgendo – le idiosincrasie che nutrivo nei confronti della musica contemporanea.

Ne parlo ancora perché martedì scorso, nella sala grande del LAC (il Lugano-Arte-Cultura, come si sa, è il nuovo centro culturale sull’omonimo lago che comprende l’importante Museo d’Arte della Svizzera Italiana e un bellissimo Auditorium multi-sala), si è tenuto un concerto della ricca stagione Lugano-Musica così speciale da non poter fare a meno di riferirne: un concerto dedicato alla storia italiana del pianoforte, dalla sua nascita (anzi, da prima del suo esordio, e cioè da quando era ancora un clavicembalo) fino alla sua ultima espressione (addirittura con una Sonata scritta per l’occasione). Al pianoforte sedeva Andrea Lucchesini, uno dei massimi interpreti e virtuosi di questo strumento.

Il programma del concerto era tale da trascinare gli ascoltatori in un turbine di sensazioni inusuali e complesse per i tanti accostamenti e contrapposizioni che obbligavano a riflettere sul senso della musica, sulle sue radici e tradizioni, sullo scorrere del tempo dal Barocco al Contemporaneo, sui caratteri della cultura italiana in rapporto agli altri paesi europei. Non imbattersi in Mozart, Beethoven, Liszt o Schumann (vale a dire nel cuore mitteleuropeo della storia del pianoforte, per non dire in quello francese di Chopin e di Debussy) ascoltando un concerto che abbracciava trecento anni di pianismo europeo, è stato a dir poco sconcertante; come se fosse mancato il piatto forte di quella storia. E invece, con palpabile lucidità, abbiamo scoperto che il pianoforte ha una sua storia anche italiana, una storia che, ancorché incroci tutte le altre, emana luce propria.

L’intelligenza e l’originalità di questo programma consisteva nel presentare prima un confronto fra Fabio Vacchi e Muzio Clementi, poi un lungo dialogo a distanza fra Domenico Scarlatti e lo stesso Vacchi, infine un capolavoro bachiano totalmente ripensato per pianoforte da Ferruccio Busoni; il tutto affidato alle italianissime mani di Lucchesini.

Il concerto è iniziato con la Sonata n. 1 (un titolo che fa pregustare un futuro!) di Vacchi in prima esecuzione assoluta, commissionata da Lugano-Musica e dedicata ad Andrea Lucchesini; ad essa, senza soluzione di continuità, è seguita la Sonata n. 3 dell’opera 50 di Muzio Clementi. (Vacchi, bolognese, è del 1949; Clementi, romano, del 1752; due secoli di distanza). Mentre Clementi è stato il primo grande pianista della storia della musica (sulla sua tomba, nell’Abbazia di Westminster, fu incisa l’iscrizione “Padre del Pianoforte”), Vacchi è alla sua prima composizione per questo strumento tantoché, in una intervista, dice di esserne stato molto intimorito! Penserete che questo primo confronto abbia visto in difficoltà la musica di oggi rispetto a quella di ieri; posso giurare che non è vero, il pubblico ha clamorosamente decretato il contrario! Molto più fascinosa ed interessante l’opera fresca di stampa rispetto a quella del competitore di Mozart ed editore di Beethoven!

Il secondo confronto era ancora più intrigante: sei Sonate di Scarlatti, eseguite a gruppi di due, si alternavano a tre composizioni, sempre di Vacchi, denominate “Tre post per Scarlatti”, in cui il compositore contemporaneo, senza alcun preciso riferimento alle sonate del clavicembalista napoletano, in un linguaggio inequivocabilmente moderno e senza ammiccamenti di sorta, ha fatto emergere dalla tastiera l’intero lascito scarlattiano. E poiché i nove pezzi sono stati eseguiti anch’essi senza interruzioni, è capitato che ascoltatori non perfettamente concentrati abbiano potuto confondersi e domandarsi di chi erano le note che Lucchesini stava imparzialmente eseguendo. Uno spaesamento non da poco se si pensa alla cristallina e solare armonia tonale settecentesca di Scarlatti accostata all’apparente disordine tonale del linguaggio contemporaneo. Dico apparente perché è chiaro che, sepolte le vecchie regole dell’armonia e della tonalità, qualsiasi linguaggio oggi finisce per sembrare privo di regole. In realtà di esse (a cominciare da quella dodecafonia, che non ci rendiamo mai abbastanza conto essere stata inventata esattamente cento anni fa!) nessuno può fare a meno; le regole se le deve trovare ogni autore cercandole di volta in volta dentro la logica intrinseca alla propria composizione. Esattamente come avviene per le regole compositive nelle arti figurative o nella poesia. Tocca a noi ascoltatori, se non proprio capirle, almeno percepirne il senso ed intuire il fil rouge che tiene tutto insieme.

Infine Bach-Busoni. Con la “Ciaccona” della seconda Partita per violino solo, forse una delle massime opere del padre tedesco del contrappunto (si noti che era coetaneo proprio di Scarlatti), quel genio del pianismo italiano che è stato Ferruccio Busoni – ancora ora poco conosciuto ed eseguito se si considera la grandezza delle sue composizioni – non dico abbia avuto la meglio sull’opera originale ma certamente ha costruito sopra di essa un secondo grande capolavoro (chi non ne ricorda l’interpretazione di Arturo Benedetti Michelangeli?). Si noti che con la “Ciaccona” Bach ha ispirato Busoni trent’anni prima (1893) di quando Ravel trasse ispirazione dai “Quadri di un’esposizione” di Musorgskij (1922). Ravel è passato dal pianoforte all’orchestra, Busoni ha trasformato la voce del violino in quella del pianoforte, e tutti e due hanno così potuto amplificare a dismisura il gioco delle armonie e la potenza espressiva delle opere sulle quali hanno lavorato.

Lucchesini e Vacchi insieme a Etienne Reymond, direttore artistico della Fondazione Lugano-Musica, hanno inventato un concerto di altissimo livello e di grande spessore, indagando la storia, i linguaggi, i caratteri del pianismo italiano, e ribaltando l’opinione corrente che l’Italia, dalla scuola napoletana in poi, sia stata patria solo del bel canto. E il tutto, curiosamente, al di là del suo confine.

Paolo Viola

 

Questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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