23 gennaio 2018

musica – QUARTETTI D’ITALIA


Dicevamo, due settimane fa, che “la contemporanea non è tutta uguale” e – manco a farlo apposta – sabato scorso è capitato di farne una nuova esperienza ascoltando un concerto che in altra situazione ci avrebbe fatto accapponare la pelle.

musica03FBNell’ex-tennis di Villa Necchi Campiglio, in via Mozart, il luogo che il FAI ha meritoriamente consacrato alla musica da camera, si è tenuto il primo di sette concerti di un ciclo denominato “Quartetti d’Italia” in cui si esibiranno sei formazioni giovanili oltre al Quartetto di Cremona che in questa circostanza ha svolto il ruolo di trainer. Ecco i nomi dei sei Quartetti e le date dei concerti: Echos (la formazione che ha inaugurato il ciclo sabato scorso), Dàidalos (27 gennaio), Maurice (3 febbaraio), Fauves (10 febbraio) Indaco (24 marzo), Epos (28 aprile), mentre il concerto del Quartetto di Cremona è previsto il 9 marzo.

Perché l’Echos minacciava di farci accapponare la pelle? Perché, secondo una prassi abbastanza diffusa, ha inserito un pezzo di musica contemporanea fra due autori classicissimi come Haydn e Schumann. Quante volte ci è capitata questa sciagura? Ci è sempre apparsa una violenza quella di imporci degli ostici pezzi contemporanei allettandoci con le coccole di musiche molto note ed amate. E quante volte ce la siamo presa con gli organizzatori che ci propinavano musiche assurde senza alcuno spirito critico e senza esercitare alcuna selezione, cercando anzi di stupirci con musiche urticanti e fastidiose, quasi in ostentata contrapposizione alla piacevolezza delle “classiche”?

Questa volta non è andata così. Fra un Quartetto fin troppo noto di Haydn, quello in do maggiore dell’opera 76 (detto l’«Imperatore», il cui secondo movimento «Poco Adagio» è stato prima l’inno imperiale asburgico ed ora è l’inno nazionale tedesco), e il Quartetto in la maggiore dell’opera 41 di Schumann, che non è mai stato annoverato fra le sue opere migliori, il pezzo interposto – ovvero il “Movimento di Quartetto” di Fabio Vacchi – è subito apparso come il pezzo forte e più stimolante del programma.

Scritto diciotto anni fa, quando essere “melodici” era blasfemo, questo pezzo che dura solo dieci minuti rapisce gli ascoltatori mettendo ripetutamente a confronto due cellule apparentemente opposte una all’altra (lenta e meditativa una, concitata ed affannata l’altra) che, essendo costituite dalla medesima struttura musicale (gli stessi intervalli), dialogano molto bene fra loro. In un appunto riprodotto nel programma di sala l’autore scrive che “nel Movimento di Quartetto ho cercato quella conciliazione fra comunicazione e ricerca che rappresenta il cuore della mia estetica. Il materiale di partenza trova, nella cantabilità, il proprio equilibro, tra idea e sensazione, sapienza e suggestione, complessità e divulgazione. Una cantabilità che nasce dal corpo di chi scrive e di chi ascolta. Una cantabilità su cui ci stanno illuminando, oggi, le neuroscienze, contestando le presunzioni metafisiche, spiritualistiche e messianiche di una certa, asettica, musica contemporanea”. Credo che Vacchi, nel riaffermare il valore della “cantabilità”, centri il nucleo del problema che noi ascoltatori abbiamo con la musica contemporanea. Cantabilità vuol dire possibilità di memorizzare e la memoria è, come ben sappiamo, il vero strumento dell’ascolto. Se non ricordiamo le note appena ascoltate non capiamo il senso di quelle che stiamo ascoltando e non riusciamo ad anticipare, ad intuire, a dare un senso, a quelle stiamo per ascoltare.

Nel suo ultimo libro “L’ordine del tempo” Caro Rovelli spiega esattamente questo fenomeno: le note appena ascoltate appartengono già alla memoria, con tutta l’aleatorietà che le è propria, quelle che stiamo ascoltando fuggono con l’attimo, quelle che ascolteremo subito dopo le anticipiamo grazie all’esperienza – tanta o poca – dell’ascolto precedente. Se la musica non ci offre la possibilità di memorizzare ciò che abbiamo appena ascoltato e di anticipare ciò ascolteremo subito dopo (mentre il presente sarà già fuggito), capiamo ben poco di ciò che stiamo ascoltando. E dobbiamo chiederci che senso abbia ascoltare – che in questo caso è sinonimo di godere – senza capire.

La musica di Vacchi ha raccolto – guarda caso – un tale successo che il presidente della Società del Quartetto, complimentandosi pubblicamente con il compositore, si è sentito in obbligo di sottolineare come la musica contemporanea “possa anche piacere molto…”. Così sì, abbiamo detto in cuor nostro!

Tornando alla “Musica nel tennis” e al Quartetto Echos, ci piace innanzitutto ricordare i nomi dei quattro musicisti: Andrea (al femminile!) Maffolini e Ida Di Vita violini, Giorgia Lenzo viola e Martino Maina violoncello. Bravi, precisi, attenti, energici, forse più preoccupati dall’aspetto fonetico che da quello semantico, mancava loro un po’ di esprit de finesse. Ma sono stati comunque ammirevoli per il generoso impeto e per il gran lavoro sui tempi e sulle dinamiche. Dopo il sontuoso quartetto haydniano e il bel brano di Vacchi, il programma si è concluso con il terzo dei tre Quartetti dedicati all’amico Mendelssohn con il quale Schumann – già quasi visionario e più beethoveniano del solito (vi si sente fortemente l’influsso degli ultimi meravigliosi quartetti) – rimane lontano dalla leggendaria eleganza della sua opera pianistica.

Curioso infine il bis: un canto popolare sardo, trascritto per i quattro archi, con una struggente melodia che sembrava sottolineare ulteriormente il piacere della cantabilità di cui diceva Vacchi. Va da sé che questi concerti per l’atmosfera della Villa, per la preziosità dei programmi, per la qualità dei musicisti, sono fra le cose più piacevoli per trascorrere i sabati milanesi.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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