16 gennaio 2018

musica – LA “LENINGRADO”


Purtroppo capita spesso che taluni grandi eventi musicali passino quasi inosservati e che straordinarie occasioni di ascolto possano venire ignorate o colte solo da pochi informati o da inconsapevoli abbonati, ignari fino all’ultimo istante del miracolo cui stanno per assistere. E’ ciò che è accaduto nell’ultimo weekend all’Auditorium con la settima Sinfonia di Dmitrij Šostakovič (1906-1975), detta la “Leningrado” per le tragiche circostanze in cui fu scritta, proprio in quella città, nel 1941. In questa rubrica ne parlai diffusamente nel novembre del 2012, a proposito di una magnifica esecuzione della stessa orchestra Verdi, per l’occasione diretta da Oleg Caetani, quando fu facile osservare che quel direttore, figlio di un grande musicista russo, doveva averla scolpita nel proprio DNA per età, per nascita e per educazione. Che un trentaduenne direttore americano potesse ora offrircene una interpretazione tanto possente e penetrante, non ce lo saremmo invece mai aspettati.

musica02FBMa andiamo con ordine. Non mi dilungo sulla drammatica vicenda che è stata “raccontata” da Šostakovič nella sua settima Sinfonia. Sappiamo che cosa è stato l’assedio di quella città da parte delle truppe tedesche. Sappiamo anche come successivamente musicologi e commentatori si siano sbizzarriti a individuare un “programma” in quella musica, presumendo che essa rappresenti esplicitamente o addirittura onomatopeicamente i novecento giorni che hanno visto morire di fame e di stenti un terzo dei tre milioni di russi che vivevano nella città isolata dal resto del mondo. Sono però convinto che non sia quello il modo corretto di esaminarne la partitura ed ascoltarne l’esecuzione: la musica deve essere ascoltata, goduta, apprezzata, prescindendo da tutto ciò che non le è intrinseco, e deve trovare la propria ragion d’essere solo in se stessa e nel proprio linguaggio.

A proposito di questa Sinfonia rileggo sia le parole di Giacomo Manzoni, che dice: “L’idea-guida è quella della vittoria delle forze dell’umanità e della ragione su quelle dell’orrore e della morte”, che quelle di Elisabeth Wilson laddove – nel suo “Šostakovič, a life remembered” – riporta le parole che il compositore rivolge all’amico Sokolov: “Fascismo: ma la musica non può essere legata a un tema, questa musica racconta tutte le forme di terrore, schiavitù, servitù dello spirito e ogni forma di regime totalitario”. E come avrebbe potuto Šostakovič esecrare solo il fascismo, orripilato com’era dalle atrocità del terrore staliniano? Come dimenticare i difficilissimi rapporti ch’egli ebbe lungo tutta la sua vita con il potere stalinista, mirabilmente raccontati da Julian Barnes nel suo famoso libro “Il rumore del tempo”?

Tornando al bel volume della Wilson, che mi auguro venga presto tradotto e pubblicato in Italia, vi sono riportate queste significative parole dell’amico pittore Sokolov: “Il famoso tema del primo movimento, all’inizio giocoso, primitivo, se non poco serio, si trasforma gradualmente in qualcosa di terrificante, acquisendo una forza capace di annullare ogni cosa nel suo cammino”. Questo credo sia il vero significato della Sinfonia, l’espressione di una tragedia assoluta, apocalittica che atterrisce per la sua disumanità. Ed è ammirevole che un giovane texano di Fort Worth sia riuscito ad immedesimarsi così intimamente in quell’immane tragedia e a penetrare tanto a fondo una delle opere più sconvolgenti della letteratura musicale russa.

Robert Trevino è praticamente sconosciuto in Italia ma ha molto colpito, un anno fa, una sua bella interpretazione, sempre con l’Orchestra Verdi, della Sesta Sinfonia di Mahler; in questa occasione lui e l’orchestra sono stati assolutamente perfetti, da lasciare senza parole. La commozione del pubblico alla conclusione del potente finale è stata tangibilissima: in occasione di entrambe le recite (confesso di essere tornato a riascoltarla!) sono state molte le chiamate del direttore, e vere e proprie ovazioni hanno accolto tutte le sezioni dell’orchestra mentre nessuno spettatore abbandonava la sala prima che i musicisti lasciassero il loro posto.

Particolarmente suggestiva è stata la lettura di quella lunga e famosa “passacaglia” che occupa gran parte del primo movimento e che per il ritmo incalzante – e per l’orchestrazione in continuo crescendo con l’aggiunta di nuovi strumenti ad ogni variazione – sembra ispirata al Bolero di Ravel. E’ l’ostinata ripetizione del tema di una marcia (militare?) che ovviamente, nella sua terribile drammaticità, nulla ha a che vedere con il carattere basco del bolero, tanto che la contaminazione fra i due generi risulta abbastanza misteriosa. Šostakovič scrive in proposito: “Non voglio costruire un episodio naturalistico con tintinnare di sciabole, esplosioni e così via. Cerco di comunicare l’impatto emotivo della guerra”. Allora non è del tutto assurdo che queste intenzioni si confrontino con la violenza della passione (e dell’erotismo) raveliani… mentre, dimenticando Ravel, si finisce per ascoltare la Leningrado pensando alla Guernica di Picasso; in fondo erano passati solo quattro anni!

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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