15 novembre 2017

musica – DUE CONCERTI INTRIGANTI


La settimana scorsa non siamo stati pochi a leccarci i baffi nell’attesa di due bei concerti al Conservatorio: lunedì la pianista georgiana Elisso Virsaladze, ospite abituale e giustamente molto amata dal pubblico delle Serate Musicali, ha presentato un programma colto e raffinato che nel primo tempo metteva a confronto due Sonate distanti fra loro più di un secolo (la K. 333 in si bemolle maggiore di Mozart, del 1778, e la numero 2 opera 14 in re minore di Prokof’ev, del 1912) mentre nel secondo raccontava l’evoluzione del pianismo romantico ottocentesco, dai Fantasiestücke opera 12 di Schumann alla Rapsodia Spagnola di Liszt, passando attraverso la trascrizione per pianoforte solo – ad opera dello stesso Liszt – del Widmung di Schumann. (Widmung è il brano introduttivo, la “Dedica” appunto, del ciclo liederistico “Myrthen”, opera 25). Aggiungendovi, nei bis, tre travolgenti Valzer di Chopin.

La sera dopo, sempre nella Sala Verdi del Conservatorio, la Società del Quartetto ha concluso il ciclo integrale dei Trii per violino-violoncello-pianoforte di Beethoven, eseguiti dall’ormai celeberrimo Trio di Parma – anch’esso grande beniamino del pubblico del Quartetto – con l’Opera 70 numero 2 (mi bemolle maggiore), le Variazioni opera 44 (nella stessa tonalità) e l’arcifamoso Arciduca opera 97 in si bemolle maggiore. Programma entusiasmante che si è concluso con un bis molto appropriato: la trascrizione – che lo stesso Beethoven ha composto per trio…casalingo! – dello Scherzo dalla sua Seconda Sinfonia. Una chicca.

Come si è capito l’attesa si riferiva quindi non solo agli amati interpreti delle due serate ma anche o soprattutto ai programmi musicali, di grande intelligenza, di quelli che consentono di capire in profondità e di godere appieno la grande musica portando per mano gli ascoltatori a scoprirne i tanti perché.

La Virsaladze – che sale sul palco sempre accigliata e già così concentrata da mettere subito le mani sul pianoforte ed immediatamente iniziare a suonare – ha esordito con un Mozart sublime, limpido e cristallino che sembrava voler concludere l’epoca della classicità e porre le basi dei primi passi verso il romanticismo. Una Sonata che coniuga lo stereotipo del “divin fanciullo” con la tenera nostalgia di Wolfgang per la morte della madre – avvenuta solo un mese prima, mentre era in viaggio con lui a Parigi – e all’influenza esercitata dall’autorevole Johann Christian Bach che aveva appena rivisto in quello stesso viaggio. E’ stata eseguita come raramente capita di ascoltare, libera da orpelli ed enfasi, da inutili rubati e ritenuti, il pedale appena sfiorato, ogni nota con il suo giusto peso, praticamente ignorati sia i pianissimo che i fortissimo a beneficio dei misurati e semplici piano e forte. Perfetta e incantevole.

Il confronto con la Sonata di Prokof’ev trova la sua ragion d’essere nelle intenzioni e nello scrupolo con il quale il musicista russo (che aveva 21 anni, appena uno in meno di Mozart quando scriveva la K. 333!) ha voluto anch’egli restare nel recinto della classicità, forzando al massimo la tonalità senza mai tradirla del tutto. Ma quanto ad ispirazione questa Sonata non può essere annoverata fra i suoi capolavori. Più interessante che attraente, con la scrittura densa e difficile, colpisce per il ritmo furibondo dello Scherzo, per l’Andante trasognato, per il Vivace finale che si abbatte come un uragano sugli spettatori. Bravissima la Virsaladze, meno convincente Prokof’ev.

Quanto a Schumann e Liszt ci sarebbe molto da dire, a cominciare dalla loro nota amicizia (erano praticamente coetanei, frequentavano lo stesso mondo, Franz era spesso in visita a Lipsia nella casa di Robert e Clara) e i caratteri molto diversi; l’accostamento proposto dalla Virsaladze non ha fatto emergere particolari affinità fra i due e neppure una reale comprensione dell’uno per l’altro; tanto delicato ed elegante uno, quanto virtuosistico e magniloquente l’altro. L’aver concluso il concerto con Chopin è stata una scelta molto indovinata, nel segno del pieno romanticismo, che ha riscaldato il cuore e mandato tutti a casa rasserenati e sorridenti.

Il Trio di Parma ha affrontato un programma ben più rassicurante e di più sicuro successo. Giunti alla fine dei tre concerti, dopo aver esplorato l’intera benché non cospicua produzione beethoveniana per quell’organico, i tre cameristi hanno giustamente chiuso il ciclo con quel capolavoro assoluto che è il Trio opera 97 chiamato Arciduca in ossequio al dedicatario Cardinale, Arcivescovo e Arciduca Rodolfo d’Asburgo-Lorena, allievo, amico, mecenate e protettore di Beethoven ancorché di diciott’anni più giovane di lui. Un capolavoro che iniziò molto male il suo percorso se si deve credere alla testimonianza di Spohr che, a proposito della prima esecuzione in casa Schuppanzigh, racconta come il pianoforte fosse terribilmente scordato e forsennatamente pestato da Beethoven per vincere l’ormai avanzata sordità.

Sarà forse per la suggestione di quel racconto che molti di noi hanno avuto la sensazione che l’altra sera anche il pianoforte del Trio di Parma non fosse perfettamente accordato e che a causa di ciò persino il bravissimo Alberto Miodini non fosse in stato di grazia. Mentre lo erano sicuramente sia Ivan Rabaglia (violino) che Enrico Bronzi (violoncello) che imbracciavano due strumenti – rispettivamente un Guadagnini del 1744 e un Panormo del 1775 – dai suoni magici.

Il concerto era iniziato con il Trio in mi bemolle maggiore che non è fra i migliori di Beethoven e che infatti non ha incantato il pubblico. Il pezzo più attraente del programma, seppure non possa dirsi un capolavoro, era rappresentato dalle 14 Variazioni dell’opera 44, di ascolto assai raro, il cui tema viene esposto dai tre strumenti all’unisono, con note “portate” (non legate né staccate) mentre le successive elaborazioni si sviluppano in modi decisamente teatrali: i tre strumenti non solo dialogano tra loro, come è normale, ma si confrontano talora anche duramente, si amano, si detestano, litigano persino. Sorprendenti. Anche in questo caso la musica era più interessante che importante e tuttavia si lasciava ascoltare con vero piacere. Questo, se vogliamo, è il vero valore dei cosiddetti “cicli integrali”, ascoltare musiche talvolta trascurate o dimenticate potendole inquadrare correttamente nel processo di crescita, di sperimentazione e di maturazione dei loro autori. Che ovviamente non producono solo capolavori ma, quando sono dei geni, lasciano sempre e ovunque tracce interessanti.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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