7 novembre 2017

musica – IL FRANCO CACCIATORE


Nel suo magnifico volume “Offerta Musicale, la musica dalle origini ai nostri giorni” (Il Saggiatore, 2013), Enzo Beacco introduce il capitolo dedicato alla “prima età romantica” con queste parole: “L’opera buffa italiana trionfa in tutta Europa, l’opéra-comique diverte Parigi e il Singspiel tedesco si trasforma in teatro di meraviglie e di magie”. Ed è in questo clima che nasce la prima vera opera lirica romantica tedesca, quel Der Freischütz di Carl Maria von Weber che è stato dato con grande eleganza alla Scala nelle scorse settimane. Mancava dalla Scala dal 1998, quando lo diresse Donald Runnicles, ma l’ultima rappresentazione che possa definirsi “epica” fu quella precedente, del 1955, quando la diresse Carlo Maria (potenza dei nomi!) Giulini prima di lasciare la direzione musicale del Teatro. Questa nuova edizione, non meno epica, è stata diretta da Myung-Whun Chung che, forse non a caso, di Giulini fu uno dei più scrupolosi assistenti, verso la fine degli anni settanta, alla Los Angeles Philharmonic Orchestra.

musica37FBDer Freischütz ha avuto diversi nomi: è stato rappresentato inizialmente sia con il titolo “Der Probeschuss” (La gara di tiro) che “Die Jägersbraut” (La sposa del cacciatore), in Francia anche come “Robin des bois“, mentre in Italia ha preso il nome “Il franco cacciatore” che non è traduzione letterale ma piuttosto letteraria, trattandosi di una vicenda che si perde nella notte dei tempi (poco dopo la fine della guerra dei Trent’anni), si svolge nelle oscure montagne della Boemia, ed è tratta dalla omonima novella pubblicata nel 1810 in una antologia di racconti fantastici intitolata “Gespensterbuch” (Libro di fantasmi) a cura di Johann A. Apel e Friedrich Laun.

Non molto ascoltata in Italia, dove se ne esegue spesso la celebre Ouverture, l’opera è invece amatissima in Germania, se non altro per essere una delle prime in lingua tedesca dopo i due Singspiel di Mozart (il Flauto magico e Il ratto dal serraglio) e dopo il Fidelio di Beethoven. Fu composta a Dresda in un lungo periodo di tempo che si concluse nel 1820 (quando erano ancora vivi Beethoven cinquantenne e Schubert ventitreenne, mentre Wagner e Verdi avevano appena dieci anni!) e fu rappresentata per la prima volta l’anno successivo a Berlino nel teatro “Königliches Schauspielhaus am Gendarmenmarkt” appena ricostruito dopo l’incendio che lo aveva interamente distrutto. Carl Maria Weber (l’attributo nobiliare Von se lo era illecitamente aggiunto il padre) aveva allora 35 anni e Mozart – che era il marito di sua cugina Constanze Weber – era già scomparso da 30. (L’autore del Freischütz era infatti molto più giovane di Wolfgang, ne aveva appena cinque quando il cugino salisburghese morì a Vienna, ed entrambi ebbero vita breve: Wolfgang visse solo trentasei anni, Carl Maria non arrivò ai quaranta!)

Queste premesse sono importanti per collocare l’opera nel suo tempo e nei suoi luoghi, ma ovviamente non sufficienti a spiegarne l’incredibile fascino e la sorprendente (per chi non ne avesse memoria o conoscenza) bellezza. Si racconta che Wagner dicesse di provare la gioia di sentirsi tedesco per il solo fatto di esser nato nella terra in cui era stato scritto Der Freischütz! E noi ci sentiamo oggi fieri di averlo prodotto qui a Milano con tanta maestria grazie a un ottimo cast guidato dal regista Matthias Hartmann e dal drammaturgo Michael Küster, entrambi tedeschi, con le scene di Raimund Orfeo Voigt e i costumi della coppia Susanne Bisovsky e Josef Gerger, tutti austriaci. Fra i cantanti – e ottimi attori, provenienti anch’essi da centro e nord Europa – spiccavano per la potenza e la bellezza della voce i bassi Günther Groissböck austriaco e Stephen Milling danese, e le due soprano Julia Kleiter ed Eva Liebau, entrambe tedesche. Il più debole, come quasi sempre accade, era il tenore e cioè il “franco cacciatore” vero protagonista dell’opera. (Il problema dei tenori sembra essere diventato irrisolvibile; non ce ne sono più e quelli che ci provano fanno fatica a emergere e assai raramente riescono a eccellere).

Ciò che ha reso meravigliosa quest’opera sono state però, indiscutibilmente, la regia e la direzione d’orchestra. Hartmann ha dato una magistrale lezione dimostrando che, quand’anche un’opera abbia bisogno di essere svecchiata, la si può rendere modernissima senza stravolgerne minimamente il senso e senza inventare tempi e luoghi diversi da quelli immaginati dall’autore. In questo caso l’idea di avere un’unica scena di base – che poi era quella centrale della Gola del Lupo cui venivano di volta in volta tolti o aggiunti alcuni segni luminosi che suggerivano i diversi spazi in cui si svolgeva l’azione (e che, detto per inciso, sembravano opere di Dan Flavin) – ha consentito di trasportare tutta la vicenda in una dimensione notturna e lunare, quasi metafisica, e di creare così una fortissima drammaticità.

Myung-Whun Chung a sua volta ci ha fatto trattenere il fiato per tutta la durata dei tre atti, con i piano e i pianissimo pieni di tensione emotiva, capaci di trasmettere anche le più intime trepidazioni d’amore, mentre i momenti dei riti infernali, dell’orrore e della paura, erano pieni di forza e tuttavia assolutamente privi di forzature. Un vero mago. Altra perfetta intuizione è stata quella di alzare il sipario sì all’inizio dell’Ouverture (come normalmente non si dovrebbe fare) ma lasciando vedere solo la struttura fondamentale della scena, vale a dire la grande foresta buia e disabitata, senza farvi accadere nulla che potesse distrarre gli ascoltatori dalla concentrazione sul meraviglioso racconto musicale.

Peccato che questo Der Freischütz abbia avuto solo poche recite e che nessuna di esse abbia visto il teatro esaurito; nell’ultima replica il pubblico era composto principalmente da turisti stranieri perché purtroppo noi corriamo a vedere solo quel che già conosciamo o di cui abbiamo sentito molto parlare. E così non sappiamo mai cosa ci perdiamo.

Paolo Viola

Fotografia di Marco Brescia e Rudy Armisano

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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