4 ottobre 2017

musica – UN TAMERLANO INQUIETANTE


Si sono concluse in questi giorni le repliche del Tamerlano, opera di Georg Friedrich Händel che la Scala ha messo in scena affidandone la regia a Davide Livermore e la direzione d’orchestra a Diego Fasolis; sempre in questi giorni abbiamo letto una grande quantità di recensioni sui giornali e sulla rete, quasi tutte favorevoli sia sul piano musicale che su quello scenico e teatrale. Anche per questa ragione sono molto imbarazzato a parlarne perché, pur avendolo apprezzato per diversi aspetti, confesso che in fondo sia l’opera che questa sua rappresentazione non mi sono piaciute fino in fondo e proverò a spiegarne il perché.

musica32FBL’opera racconta una storia molto intricata di amore e di potere, di politica e di violenza, che si svolge nel 1403 alla corte dell’imperatore tartaro Tamerlano che ha appena vinto gli ottomani e vede in primo piano oltre allo stesso imperatore, il principe greco Andronico suo alleato, la principessa Irene sua promessa sposa, e soprattutto i veri protagonisti dell’opera che sono l’imperatore dei turchi Bajazet e la figlia Asteria, entrambi prigionieri del tartaro.

Tamerlano, Bejazet ed Andronico si contendono l’amore di Asteria, strattonata fra il trepido amor paterno, quello condiviso del principe greco e quello indesiderato e violento del tiranno, mentre Irene ha il suo gran daffare a recuperare il potere e il fidanzato che – a causa di Asteria – le stanno sfuggendo di mano.

Händel ha vissuto l’infanzia in Germania e gran parte della giovinezza in Italia ma nel 1724, quando ha scritto quest’opera, viveva già da dodici anni a Londra dove l’Arcadia non era del tutto passata di moda e le voci dei registri alti – in particolare quelle dei celeberrimi castrati – erano le più apprezzate dal pubblico, al punto che era assai più facile trovare cantanti con quelle doti piuttosto che baritoni o bassi. È dunque comprensibile che Händel abbia deciso di affidare le tre parti maschili rispettivamente a un contralto (Tamerlano), a un tenore (Bajazet) e a un mezzosoprano (Andronico) escludendo voci che sembrerebbero più adatte a rappresentare uomini di potere come quelli che animano la vicenda (un basso in realtà c’è, è quella di del confidente di Andronico, ma nell’opera ha una parte minore).

Le cose però alla Scala si sono molto complicate perché le parti dei due imperatori sono state giustamente affidate non a un contralto e a un mezzosoprano, bensì a due controtenori (peraltro, ai bravissimi Bejun Mehta e Franco Fagioli) mentre l’unico vero tenore, il grande Placido Domingo, era in evidenti difficoltà trovandosi alle prese con una musica – barocca per eccellenza – non propriamente nelle sue corde. Belle e perfette nelle loro parti, per fortuna, erano le voci della soprano Maria Grazia Schiavo (nei difficili panni di Asteria) e della contralto Marianne Crebassa (in quelli fatali di Irene).

Sui problemi che già all’origine presentavano le tre voci maschili ha poi ulteriormente infierito Livermore decidendo di trasporre la vicenda sei secoli dopo portandola, in omaggio al centenario della rivoluzione bolscevica (!), nel 1917; così i due imperatori sono diventati Stalin e lo zar Nicola II (!!) e Andronico una figura a mezza via fra Lenin e Trotskij. Il culmine dello straniamento è stato vedere il sanguinario dittatore georgiano, infagottato nel pastrano con cui si è consegnato alla storia, spadroneggiare con la voce delicata del controtenore (!!!).

Neppure si comprendeva come le meravigliose e dolcissime “arie” di Händel potessero essere cantate, a prescindere dal problema delle voci, dai protagonisti di una Rivoluzione drammatica e cruenta come quella d’Ottobre; c’era qualcosa, nella teatralità dello spettacolo e nell’ascolto musicale, di profondamente incoerente.

Peraltro, insieme al programma di sala, è stato distribuito un foglio con una bella chiosa con cui Livermore difende la legittimità della trasposizione dal medioevo all’epoca moderna; una spiegazione più che accettabile dal punto di vista logico che tuttavia, alla prova dei fatti, non ha retto né sul piano teatrale né su quello musicale.

E poi, perché alzare il sipario fin dalle prime note e tenerlo aperto durante tutta l’esecuzione dell’Ouverture, proiettando filmati d’ambientazione sulla campagna russa e sulla guerra civile fra bolscevichi e zaristi? Usa molto utilizzare il tempo delle Ouvertures per anticipare le vicende narrate dall’opera, ma è corretto distrarre gli spettatori durante l’ascolto dell’introduzione che è momento di grande concentrazione, necessaria per capire il tessuto musicale su cui l’opera è costruita e per assimilarne i temi principali?

Nonostante le riserve, tuttavia, questo Tamerlano è stato uno spettacolo di grande classe, elegante, innovativo, cantato e recitato ottimamente, con scene affascinanti e movimenti di palcoscenico – cantanti, mimi, ballerini – molto curati. Il treno (quello con cui Lenin arrivò a San Pietroburgo o quello imperiale, che riporta a casa il vincitore e i suoi prigionieri …) che corre nella neve e nei boschi dell’arida campagna russa; le infinite tonalità dei grigi – le nuvole, i cieli, il Palazzo d’Inverno -sui quali spicca il rosso fuoco delle bandiere comuniste e delle casacche dell’esercito zarista; i bei costumi di Mariana Fracasso che riescono ad alludere sia al medioevo asiatico che al primo novecento europeo; la sorprendente tecnologia con cui sono state realizzate le immagini … .

Tutto ciò si deve, oltre alla regia di Livermore, al raffinato design degli studi Giò Forma e D-Wok e alle luci perfette di Antonio Castro. Un lavoro sontuoso e fascinoso che ha avuto il solo torto – nonostante l’uso di strumenti storici da parte dell’orchestra della Scala, cui si sono aggiunti i “Barocchisti” della Radio della Svizzera Italiana – di portarci troppo lontano dalla musica di Händel, dalla vicenda ch’egli aveva in mente, e soprattutto dalla magica atmosfera settecentesca ch’era lecito aspettarsi.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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