15 marzo 2017

musica –  UNA SETTIMANA SFORTUNATA


Vi erano molte aspettative per il concerto che il Quartetto “Meta4” martedì scorso ha dato al Conservatorio, ospite per la seconda volta della Società del Quartetto; non solo perché quando vennero la prima volta nel 2007, giovanissimi, parvero molto bravi e dunque ci si aspettava che nel frattempo fossero diventati bravissimi. Ma anche perché il programma, inserito nel progetto “Focus Schubert” era molto allettante: il Quartettsatz D. 703, il Trio D. 581 e il Quartetto “Rosamunde” D. 804. Nonostante le aspettative però – sarà stato per la solita diffidenza nei confronti di interpreti poco noti – la sala Verdi era desolatamente mezza vuota.
musica10FBAnche quel nome “Meta4”, che forse in una lingua approssimativa nordeuropea vorrebbe essere letto come Metaphore più che come Metafour, non ispira molta simpatia. Dicono i quattro musicisti finlandesi che hanno scelto META partendo dall’idea di non usare le iniziali dei loro cognomi ma quelle dei nomi propri (poi è cambiato uno di loro e la cosa non ha più funzionato) mentre il numero 4 è stato aggiunto – evidentemente contandosi – “dopo una notte trascorsa insieme” (sic!).

Voler essere originali è la loro ragion d’essere: suonano in piedi (tranne, ovviamente il violoncello, Tomas Djupsjöbacka che per non esser da meno aggiunge una pedana e si mette all’altezza degli altri); vestono sì in nero ma vistosamente attillati per mettere in evidenza le loro ardite movenze; i due violinisti per marcare la loro ulteriore diversità portano scarpe coloratissime (lei, Minna Pensola, rosso fuoco tacco 12; lui, Antti Tikkanen, verde muschio) e si alternano nei ruoli di primo e secondo; il violista Atte Kilpeläinen, decisamente il più sobrio, svetta su tutti gli altri per la cospicua altezza. Insomma anche l’occhio vuole la sua parte e loro sicuramente non intendono deluderlo. Sono anche e soprattutto dei formidabili esecutori, perfettamente affiatati, molto abili nell’ottenere ciò che vogliono dai loro strumenti e nell’evitarne le insidie; in altre parole sono tecnicamente bravissimi e capaci di superare qualsiasi difficoltà.

La cosa che invece sorprende è la scelleratezza delle loro scelte interpretative, chiare fin dalle prime misure del Quartetsatz: una enfasi smisurata che rasenta il furore, smodate movenze dei corpi (soprattutto i due violinisti sembrano dei folletti indemoniati) che si riflettono nei violenti contrasti dei suoni, note gridate o strappate e note sussurrate o taciute, forti quelle in battere e impercettibili quelle in levare (ma anche viceversa per ottenere qualche effetto speciale), andamenti leziosi alternati a fraseggi nervosi, senza compostezza e senza profondità. (È ciò che accade in molto teatro contemporaneo in cui l’istrionismo della recitazione offusca la credibilità dei personaggi e la ostentata declamazione non consente di soffermarsi sul testo).

Una fastidiosa esibizione che si traduce in un cattivo servizio reso alla musica al solo scopo di darsi una identità alternativa. (E per essere ancora più alternativi alla fine di un concerto durato solo un’ora – due mezz’ore con il solito intervallo – non hanno neppure accolto la richiesta di bis da parte del pubblico). Un esempio: il notissimo tema dell’Andante del Rosamunde, così dolcemente cantabile, si è completamente perso in un chiaroscuro tanto accentuato da occultare la melodia mentre il Minuetto, a causa del fraseggio percussivo e troppo ritmato, era addirittura irriconoscibile come tale.

La parte migliore del concerto è stata l’introduzione che ne ha fatto Oreste Bossini, con un dotto confronto fra le forme del Trio e del Quartetto. Osservato come sia poco frequente ascoltare una dopo l’altra le due formazioni, anche perché ai quartettisti non può far piacere lasciare in camerino uno dei colleghi, con una bella metafora calcistica Bossini ha spiegato che il Quartetto è come una squadra che gioca a tutto campo, dove cioè essendo coperti tutti i ruoli si riesce a “far sistema”; al contrario, invece, il Trio più che a una squadra – e cioè a un “ensemble” – assomiglia al semplice suonare insieme dei tre “solisti”.

***

L’infelice settimana si è poi conclusa con un recital del pianista Alessandro Taverna, trentaquattrenne veneto di Portogruaro reduce da una acclamata performance lisztiana con la Filarmonica della Scala, che sabato pomeriggio – sempre per la Società del Quartetto ma nello spazio incantato del tennis di Villa Necchi Campiglio, davanti a un vero “parterre de roi” – ha eseguito i 4 Scherzi e la terza Sonata di Chopin completamente ignaro che il suo amato Fryderyk non amava affatto mostrare i muscoli, aveva “l’ésprit de finesse” come imperativo categorico e – ancor prima di poter leggere Calvino – sentiva la leggerezza come legge morale. Lui, invece, teatrale e declamatorio, non si è fatto neppur prendere dalla malìa dell’ambiente e dell’ora, né tantomeno ha voluto ascoltare le lezioni di Cortot, di Rubinstein, di Benedetti Michelangeli, di Pollini. Ha tirato dritto per la sua strada, dalla prima all’ultima nota, per dimostrare di avere una tecnica formidabile e delle mani d’oro. Ma come si sa non basta, ci vuole anche la testa.

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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