7 marzo 2017

musica –  PROVE APERTE ALLA SCALA


Forse non a tutti è noto che la Filarmonica della Scala da qualche tempo a questa parte ha avviato un programma denominato Prove aperte grazie al quale, pagando cifre molto contenute (dai 5 euro nelle gallerie ai 35 in platea) si può assistere alle prove di alcuni concerti della stagione; quest’anno sono quattro, di cui tre già tenuti nelle domeniche dell’8 gennaio, 19 febbraio e 5 marzo, mentre il quarto si svolgerà domenica 21 maggio prossimo alle 19.30 con Myung-Whun Chung sul podio e Mario Brunello al violoncello (Concerto opera 104 per violoncello e orchestra di Dvořák e Sinfonia numero 5 in do minore di Beethoven).

musica09FBLe prove del 5 marzo (il concerto si è tenuto il giorno successivo) riguardavano due pezzi da novanta della produzione beethoveniana, vale a dire il Concerto numero 5 in mi bemolle maggiore, opera 73 per pianoforte e orchestra, il celebre “Imperatore”, e la Sinfonia numero 7 in la maggiore, opera 92. Direttore Riccardo Chailly, pianista Maurizio Pollini, una accoppiata di beniamini del pubblico scaligero tale per cui il teatro era pieno fino all’inverosimile, non vi erano più biglietti in vendita e i gentili uffici della Filarmonica non hanno potuto offrirci alcun accredito; per mera fortuna abbiamo trovato all’ingresso alcuni amabili signori cui era miracolosamente rimasto in mano un biglietto inutilizzato.

Di queste “prove aperte” non si può dir male senza essere tacciati di sparare sulla Croce Rossa visto che l’orchestra, il direttore e i solisti le offrono (è proprio il caso di dirlo, perché provare davanti al pubblico è una sofferenza e ha anche non pochi aspetti limitativi) ad alcune organizzazioni no profit e in particolare ad associazioni che lavorano nell’area urbana periferica «impegnate in progetti destinati a contrastare la dispersione scolastica, promuovere percorsi di orientamento formativo ed avvio al lavoro, supportare scuola e famiglia ove vi sia del disagio». Fra queste l’Associazione Amici di Edoardo Onlus, beneficiaria l’altra sera del concerto beethoveniano, nota per aver creato e per gestire da vent’anni l’apprezzato centro di aggregazione Barrio’s alla Barona, con oltre 60.000 presenze all’anno, soprattutto di giovani.

Dunque, non possiamo che plaudire ed esser grati ai Filarmonici, a Chailly e a Pollini che hanno lavorato per due ore e mezzo con il disagio di dover correggere e correggersi, di doversi capire e accordare davanti alla sala gremita di un pubblico strano, di età media piuttosto elevata, per lo più desideroso di ascoltare le due composizioni nella loro interezza, dall’inizio alla fine, e che invece ha dovuto accontentarsi (ma forse gli andava bene così) di frammenti più volte ripetuti, di continue interruzioni, di un fare e disfare un po’ logorante.

Credo che l’attesa fosse di una prova generale e ultima, con il rischio di qualche interruzione che non impedisse di percepire nel suo insieme l’intera opera e l’interpretazione che ne veniva proposta. Confesso invece di non aver capito come la sera prima del concerto, diciamo così “ufficiale”, si fosse ancora così indietro nella messa a punto del fraseggio e dei dettagli interpretativi, tanto da indurre il direttore a interrompere continuamente l’esecuzione e a rileggere anche brevi spezzoni della partitura (senza ovviamente che gli ascoltatori potessero cogliere appieno il significato di queste operazioni).

Più volte in questa rubrica abbiamo sollevato il problema dell’attuale organizzazione della musica classica che ovunque soffre di una eccessiva riduzione dei tempi dedicati alle prove; e questo è ancor più evidente quando i programmi prevedono opere con direttori d’orchestra e solisti che devono trovare difficili intese fra loro e realizzare delicatissimi amalgami; è stato anche il caso di Chailly e Pollini che – magnifici entrambi – non hanno approcci e sensibilità omogenei: di cultura rigorosamente germanica il primo, che ha grande dimestichezza con Dresda e Lipsia, di natura solare e mediterranea il secondo, che non ha mai nascosto la passione per Chopin.

Ho trovato ancor più inquietante, però, il significato culturale di queste prove, proposte a un pubblico più o meno comunque pagante, al quale più che mettere in mostra le proprie fatiche bisognerebbe offrire il risultato di quelle fatiche; non è un pubblico di studenti di Conservatorio desideroso di apprendere come si fa musica, quanto piuttosto un pubblico di appassionati che vorrebbe goderla, quella musica.

Il tema dunque è un po’ aggrovigliato: in un mondo ideale bisognerebbe avere tanto tempo a disposizione per le prove da potersi permettere non solo di incidere più profondamente sulle scelte interpretative e sulla qualità dell’esecuzione, ma anche di disporre di una prova generale conclusiva, presumibilmente senza interruzioni, da poter offrire in beneficienza senza creare disagi a nessuno, né sul palco né in platea.

Quanto a Beethoven, dunque, lo abbiamo sentito molto poco; abbiamo però riascoltato i pezzi con cui ha costruito i suoi capolavori, compreso quell’Adagio un poco mosso dell’Imperatore, che in questo caso è sembrato troppo poco mosso, e quell’Allegretto della Settima che, dopo il bell’incipit dei violoncelli, è parso perdere un po’ di poesia. E poi abbiamo visto Chailly sfoggiare ancora una voltai la sua grinta e constatato con gioia che Pollini – benché in prova non abbia suonato molto pulito – ha ancora quel magico “tocco” che l’accompagna fin dai suoi anni giovanili.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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