28 febbraio 2017

musica – POVERO VERDI, CHE SCEMPIO!


Sono scandalizzato, e mi domando se sono un bacchettone che non sopporta trasgressioni o se ho conservato un minimo di capacità di indignarmi. Lascio ai miei lettori il giudizio e mi dichiaro disposto ad accettarlo e a fare ammenda se la mia colpa risulterà grave.

musica08FBI fatti. Mercoledì scorso, nello spazio teatrale No’Hma di via Orcagna, creato nel 1994 da Teresa Pomodoro e ora diretto dalla sorella Livia (che tutti, memori del suo ruolo al Tribunale di Milano, chiamano “la Presidente”) è stato dato uno spettacolo dal titolo difficilmente comprensibile ma in certo modo intrigante “Verdi’s Mood e le donne” con l’attrice Maddalena Crippa e la cantante Cinzia Tedesco oltre a quattro musicisti (Stefano Sabatini al pianoforte, Giovanna Famulari al violoncello e – trattandosi d Verdi non me lo sarei aspettato – Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria). La mattina era uscito sul Corriere un bel pezzo su quattro colonne, a firma di Giuseppina Manin, nel quale si diceva che la Tedesco “ha inciso alcune delle arie più celebri delle eroine verdiane arrangiate in chiave jazz da Stefano Sabatini” e dunque – avendo ancora nella memoria il meraviglioso Jazz – Sebastian – Bach dei Swingle-Singers dei lontani anni sessanta – non mi sono affatto spaventato, anzi, mi è sembrato che potesse essere un’idea geniale.

Mal me ne incolse, perché mi sono trovato ad assistere a uno spettacolo per me così dissacrante da rendermelo intollerabile da tutti i punti di vista, facendo un uso spregiudicato del nome di Verdi, senza il neppur minimo riguardo alla grandezza della sua arte e al significato della sua musica.

Vediamo separatamente le componenti principali dello spettacolo cominciando proprio dal canto. Il Verdi’s Mood, se per mood intendiamo umore, carattere, atmosfera, non è stato minimamente percepibile: la Tedesco, ha cantato dei pezzi – non so quanti, perché dopo i primi sono letteralmente fuggito, e non sono stato il solo – che delle arie verdiane non lasciavano trapelare altro che poche parole (pensate a quelle dell’Ave Maria dell’Otello!). Quattro note, che non avevano nulla a che fare con l’originale tessuto musicale verdiano, imbastivano banalissimi brani di jazz senza alcuna invenzione né humor, senza ambiguità o allusioni, senza nulla che li rendesse minimamente interessanti. Di Giuseppe Verdi si è persa ogni traccia. Solo il nome, per attrarre persone sprovvedute come me.

Alle “arie” della Tedesco si alternavano alcune lettere indirizzate a Verdi dalle due mogli Margherita Barezzi e Giuseppina Strepponi – almeno quelle che ho sentito io prima della fuga – lette al microfono da Maddalena Crippa; i testi, che contenevano confessioni e confidenze e che dunque avrebbero potuto essere appena sussurrati o trattati con dolcezza e delicatezza, venivano dalla Crippa inverosimilmente declamati con la teatralità tipica dell’attrice drammatica. È vero, certi comportamenti di Verdi e della Strepponi furono a loro modo rivoluzionari e anticiparono costumi assai più liberi rispetto alle usanze dell’epoca. Ma eravamo comunque nell’ottocento e le signore, per evolute che fossero, avevano pur sempre dei modi acconci. Anche in questa parte non ho visto neppure l’ombra di atmosfera verdiana.

Confesso che mi sono più volte chiesto durante quei minuti “ma se Verdi fosse qui, cosa potrebbe pensare?” e non ho avuto dubbi ad immaginarlo furibondo se non addirittura offeso. E forse anche le due signore non avrebbero gradito che le loro lettere d’amore e di passione fossero “urlate” così come si usa oggi nei nostri teatri.

Infine l’ensemble musicale. Credo che per un batterista e per un contrabbassista possa essere abbastanza naturale l’utilizzo di qualsiasi genere di materiale sonoro per le costruirvi le proprie improvvisazioni. E che altrettanto naturale, se non addirittura ovvio, possa esserlo per un pianista che si dedichi al jazz e alla musica leggera in generale. Ma faccio fatica a immaginare che una violoncellista – che si è sicuramente diplomata in un conservatorio e che dunque ha studiato storia della musica e ha eseguito le “Suite per violoncello solo” di Bach – possa trovarsi a proprio agio nel travisare la musica di Verdi e nell’usarne così spregiudicatamente il nome. I musicisti veri può darsi che sappiano scherzare con i fanti, ma sicuramente sanno che bisogna lasciar stare i santi.

* * *

Lunedì 27 al Conservatorio, per le Serate Musicali, si è tenuto un concerto memorabile. Nella sala Verdi stracolma di gente (c’erano anche molti giovani) András Schiff ha suonato Schubert per tre ore filate con un rigore e una passione indescrivibili e un livello di concentrazione difficile da immaginare; due Sonate (D. 845 in la minore e D. 894 in sol maggiore), quattro Improvvisi (D. 935) e tre Klavierstücke (D. 946) eseguiti sul suo personale Bösendorfer, un po’ sordo rispetto allo Steinway ma dal suono certamente più vicino al mood (!) schubertiano.

Per Schiff la musica di Schubert è proprio quella di elezione, la musica nella quale si trova a perfetto agio e prova una totale immedesimazione; tanto che – altrimenti sarebbe imperdonabile – di fronte ai soliti eccessivi colpi di tosse del pubblico si è sentito libero di interrompere l’esecuzione per diversi minuti, farsi dare un microfono e, nel suo simpatico e stentato italiano, rampognare la platea ricordando che la musica di Schubert, costruita sui piano e pianissimo, non sopporta altro tipo di rumori. Al di là dell’antipatia del gesto bisogna riconoscere che è riuscito a ottenere un religioso silenzio per tutta la durata del concerto, dimostrando così che la tosse può essere evitata; alla fine ha offerto uno strepitoso bis con l’Improvviso in mi bemolle maggiore n. 2 dell’opera 90 (D. 899) e con esso ha voluto esprimere un esplicito ringraziamento al pubblico. Un caratteraccio al quale non possiamo non dirci grati.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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