30 novembre 2016

musica – MUSICA DA CAMERA


“In una sala molto piccola, in una stanza di soggiorno, possiamo discernere chiaramente le linee melodiche più elaborate, le armonie più complesse e gli schemi ritmici più intricati, perché siamo in strettissima relazione spaziale con la fonte del suono. Inoltre gli strumenti e i cantanti possono far uso delle più raffinate sottigliezze di tecnica perché nulla andrà perduto e gli stessi esecutori potranno comunicare le loro impressioni direttamente, come in una conversazione privata. Il compositore che scrive per tali condizioni gode della massima libertà possibile per sviluppare la propria tecnica nei campi più esoterici (sic). Quasi ogni cosa ch’egli scrive ha probabilità di essere presentata nitidamente e chiaramente percepita. Nulla di strano perciò che la musica da camera sia sempre stata il mezzo preferito per l’audacia tecnica per quanto riguarda l’applicazione degli elementi musicali.”.

musica39fbHo preso questa citazione di Paul Hindemith (1895 – 1963) dal programma di sala firmato da Luca Di Giulio per un concerto del Trio di Parma che si terrà l’8 dicembre prossimo alla Sala Greppi di Bergamo (il ricco programma della serata comprende i Trii per pianoforte, violino e violoncello in la maggiore di Haydn e in fa maggiore di Schumann e – con l’aggiunta della viola di Simonide Braconi – il Quartetto con pianoforte in do minore di Brahms. Un concerto imperdibile).

Questo testo, che non so da dove provenga ma in cui riconosco la grande statura del musicista tedesco, mi ha fatto ricordare l’introduzione di Oreste Bossini a un recente concerto della Società del Quartetto in cui disse (cito a memoria, spero di non tradirlo) che la forma musicale del Quartetto d’archi nasce o si definisce con Haydn nello stesso periodo in cui, con l’illuminismo avanzante, si sviluppa il piacere privato della conversazione e del reciproco ascoltarsi: i quattro strumenti suonando insieme si parlano e si ascoltano vicendevolmente, argomentano e conversano fra loro sviluppando i temi musicali come fossero argomenti di conversazione.

Questa lunga premessa vuole essere un tributo alla eccellenza della musica da camera cui grandissimi interpreti, molto spesso giovani, dedicano la vita. La musica da camera è infatti un genere musicale che pretende un enorme impegno (ai più sconosciuto) e che fino a poco tempo fa – in particolar modo in Italia, dove gli ascoltatori hanno storicamente privilegiato prima l’opera lirica e poi la musica sinfonica – faticava a imporsi. Ora le cose vanno un po’ meglio, ma dobbiamo chiederci come mai un concerto come quello dedicato ai meravigliosi Lieder di Schumann delle opere 24, 42 e 48 – eseguiti lunedì scorso alla Scala da un baritono celebre come Matthias Goerne accompagnato al pianoforte dal non meno celebre Christoph Eschenbach – si è svolto davanti a una sala semivuota mentre nelle settimane scorse, per le recite delle mediocri Nozze di Figaro, non si trovava posto.

Va meglio per fortuna per la musica strumentale, visto che la sala Verdi del Conservatorio era piena per l’impeccabile esecuzione integrale e “cronologica” dei Quartetti di Mozart, conclusi proprio in questi giorni dal Quartetto di Cremona, e che così certamente sarà per il ciclo integrale delle opere per pianoforte, violino e violoncello di Beethoven che il Trio di Parma eseguirà sempre per la Società del Quartetto a partire dai primi di febbraio e fino a maggio.

Riflettendo sulla premessa e sulla situazione mi domando quanto sia appropriato l’ascolto della musica da camera nelle grandi sale da concerto come la Sala Verdi del Conservatorio o il Teatro alla Scala; sale enormi in cui – per quanto buona possa essere l’acustica, e spesso non lo è – si perdono sia il senso della citata osservazione di Hindemith che il concetto espresso da Bossini. Lontana da me, per carità, l’idea di criticare le più che benemerite istituzioni che organizzano concerti e stagioni di musica da camera proposte nelle grandi sale; resta però il fatto che se si avesse la fortuna di ascoltare gli strumenti e le voci a distanza ravvicinata e in ambienti piccoli cambierebbe totalmente la percezione della musica, la si godrebbe assai più intimamente, la si apprezzerebbe e la si capirebbe molto di più.

Si noti bene che queste considerazioni sugli spazi ridotti in cui si dovrebbe ascoltare la musica da camera non hanno nulla a che vedere con l’abitudine di ascoltare musica riprodotta in ambienti ristretti, perché il fatto di non vedere la “fonte del suono” priva l’ascoltatore di una parte essenziale della percezione musicale e quindi del godimento della musica. E se questo è sempre vero, lo è certamente di più per la musica da camera. Infatti, mentre l’opera lirica ha bisogno ovviamente di essere “guardata” oltre che ascoltata (e fatti salvi i nuovi esempi di “opere da camera”, come quelle prodotte da Fuori Opera di cui ho ampiamente riferito in questa rubrica, ciò non può avvenire che in grandi teatri dotati di grandi palcoscenici), nel caso della musica sinfonica la distanza degli ascoltatori dagli strumenti dell’orchestra (quindi la difficoltà di essere “in strettissima relazione spaziale con la fonte del suono”) viene per così dire mitigata dalla visione del direttore d’orchestra che in qualche modo sintetizza ed esplicita il contenuto della musica.

Nel caso della musica da camera, invece, quella “strettissima relazione” resta una parte integrante ed essenziale della comunicazione musicale e andrebbe perseguita con maggiore determinazione di quanto non si faccia oggi. Penso, per esempio, che si potrebbe immaginare che lo stesso concerto venga eseguito due volte: in una grande sala per il vasto pubblico degli ascoltatori, e in una sala piccola e raccolta per chi desiderasse un ascolto più approfondito. (Sarebbe così disdicevole poter scegliere come ascoltare la musica, esattamente come si sceglie la carrozza di un treno o il posto su un aereo? I pareri dei lettori sono ben accetti).

Paolo Viola

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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