9 aprile 2024

PACE E 25 APRILE: DUE VALORI DA INSEGUIRE

L’importanza della festa della Liberazione e la necessità di porre fine alle guerre


 ta (9)

È da una vita che partecipo, di anno in anno, alla manifestazione del 25 aprile. Un grande corteo, sempre, una grande giornata. Talvolta una giornata straordinaria come nel 1994, quando il bersaglio furono il governo Berlusconi e la scelta del leader di imbarcare le destre e uno stuolo di mediocri comprimari, taluni di assai oscuro profilo. Giornata straordinaria perché furono in migliaia e migliaia a sfilare da Porta Venezia a piazza del Duomo e perché la pioggia non diede tregua: pioggia torrenziale, accanita, interminabile.

Sempre, di anno in anno, in mezzo a quel fiume di persone, ascoltando Bella Ciao, osservando volti, bandiere, cartelli, consideravo quanto quella gente fosse lì, instancabile, per esaltare quei valori di libertà, solidarietà, unità, che la Resistenza aveva espresso. Il 25 aprile in fondo è questo: uno spazio aperto, uno spazio per quanti, nelle differenze, si riconoscano insieme nell’antifascismo, nella Costituzione, nella democrazia….

L’amarezza veniva il giorno dopo leggendo i giornali, quando, con pervicace ostinazione, tanta partecipazione (oserei scrivere tanta felice partecipazione) veniva riassunta in titoli, che dicevano: “Contestata la Brigata ebraica”. Più o meno sempre seguendo questo stessa schema.

Naturalmente alle “contestazioni”, anche per dovere professionale, mi è capitato di assistere. Puntuali, in piazza San Babila, alla svolta verso corso Matteotti. Puntuali, quando alcune decine di persone, eredi ideali, nipoti, pronipoti di quanti alla guerra contro i nazisti avevano davvero partecipato, si affacciavano, recando lo striscione “Brigata ebraica” e sventolando bandiere di Israele (dello Stato di Israele), si levavano da un gruppetto sparuto fischi e ululati. Puntualmente mi chiedevo: ma perché tanta gazzarra? Per dar fiato alle trombe di giornali e giornalacci, oscurando il significato tanto profondo di tanta manifestazione, di tanta testimonianza…  mostrando al tempo stesso ignoranza della storia e una scarsa sensibilità politica.

La storia racconta che la Brigata ebraica venne creata alla fine della guerra, nel settembre del 1944, con la benedizione di Churchill, ma molti tra quei soldati avevano già combattuto nel Palestine Regiment, insieme peraltro con soldati arabi, in Africa contro la Wehrmacht di Rommel. La Brigata ebraica venne sbarcata a Taranto, risalì la penisola, si scontrò con i nazifascisti nell’Italia del nord ancora occupata. Fino alla Liberazione, sventolando la bandiera di tre rettangoli verticali affiancati, azzurro il primo, poi bianco e poi ancora azzurro, sormontati dalla stella di David. Quegli ebrei, di diverse nazionalità, sotto il vessillo della Brigata, si sacrificarono anche per la nostra libertà. Erano nostri alleati. Poi la storia si complicò sul suolo palestinese, per responsabilità varie (in primo luogo dei governi britannici), un capitolo che si aprì malamente e le cui ultime pagine sono tra le peggiori.

Stavolta le cose si mettono difficili, perché di mezzo ci sono due guerre. La prima in Ucraina sembra ormai lontana nel tempo, parrebbe quasi dimenticata se Zelensky non reclamasse tutti i giorni missili più potenti e se da questa parte dell’Europa non si chiacchierasse instancabilmente di miliardi per comprare missili più potenti. I sondaggi dicono addirittura che la maggioranza degli italiani e degli europei è ben stanca di sentirne parlare.

L’altra guerra ancora ci colpisce, forse perché più vicina nel tempo, dall’orrore del 7 ottobre all’orrore della devastazione di Gaza, per le immagini ripetute delle rovine, dei profughi, degli ospedali sventrati, dei cadaveri a pezzi, per la sorte degli ostaggi…

Due guerre, due tragedie, un dolore senza fine, una sofferenza senza fine, di fronte alle quali non si potrebbe che invocare la pace prima di tutto.

Ma la “pace” non basta, se è vero quel che si è letto. Il nuovo presidente dell’Anpi di Milano, Primo Minelli, un ex sindacalista, aveva proposto uno slogan per lo striscione che avrebbe aperto la sfilata, “Cessate il fuoco ovunque”. Ma quel “cessate il fuoco” non è piaciuto. Daniele Nahum, consigliere comunale non più del Pd che lo aveva candidato e lo aveva eletto, ha spiegato perché: “Il presidente dell’Anpi Milano parla di un cessate il fuoco ovunque. Non lo vincola né al rilascio degli ostaggi israeliani e nemmeno alla giusta resistenza armata dell’esercito ucraino, necessaria anche per non smembrare quel Paese. Non mi pare una piattaforma condivisibile. Anche perché, se i partigiani non fossero stati armati e se gli alleati non fossero intervenuti militarmente, staremmo a parlare di un’altra storia”.

Lascio stare la congruità del riferimento: altro mondo era quello di allora. Aggiungo che agli striscioni si può anche rinunciare. Però mi chiedo se ci si possa accapigliare per un drappo di stoffa e se in un drappo di stoffa si possa dire tutto, se la “pace ovunque”non dovrebbe essere prima di tutto, se la pace non potrebbe rappresentare un orizzonte che unisce. Se la pace non fosse la condizione indispensabile per la libertà degli ostaggi e non aiutasse ad affermare il diritto di due popoli, di ogni popolo, a vivere a casa propria. Se quel “cessate il fuoco” non dovrebbe essere il primo comandamento della politica, ammesso che una cultura politica esista ancora e che non sia invece una sfida per l’egemonia a dover contare più dei morti…

La politica avrebbe la forza di distinguere torti e ragioni, di porre le condizioni di una convivenza stabile, di ricostruire un paese, di curare le ferite. Se lo volesse. In fondo è solo una questione di terra, che non appartiene a nessuno. Dobbiamo invece arrenderci alla logica delle armi, come se solo le armi potessero seminare o riportare la giustizia? Dobbiamo dividerci, proclamando vincitori e vinti?

Ancora una considerazione. Molti, compresa Liliana Segre, sono insorti contro l’uso della parola “genocidio” a proposito di quanto sta avvenendo a Gaza. Capiterà di leggerla anche su qualche cartello issato dal corteo del 25 Aprile, non solo nelle risoluzioni degli organismi internazionali. Non so quale importanza si possa attribuire a una definizione. Secondo un dizionario qualsiasi della lingua italiana “genocidio” è “lo sterminio in massa di un intero gruppo etnico, nazionale o religioso”. A Gaza finora sono state uccise trenta/trentacinque mila persone. C’è bisogno della “parola appropriata” per capire che cosa è avvenuto?

Piuttosto nella catastrofe di cose e di pensieri, nel moltiplicarsi delle guerre, nella continuità di sciagure di ogni genere, nella nostra stessa assuefazione all’orrore, nella nostra indifferenza di fronte a quanto di tragico per ora non ci tocca, di fronte allo sterminio quotidiano di persone (uno sterminio magari poco sistematico, niente a che vedere con quello agito dai nazisti o con quello minacciato con le bombe atomiche) o alla distruzione di luoghi, ci sono ancora parole “adatte”? Quando di mezzo non ci sono più le persone, ma la nostra umanità, il nostro pianeta.

Ancora una informazione, per gli eventuali contestatori della Brigata Ebraica. Cito un comunicato di Sinistra per Israele: “La morte di sette operatori umanitari a Gaza, colpiti da missili lanciati da un drone israeliano, conferma ancora di più l’urgenza di dare attuazione al cessate il fuoco con contestuale liberazione ovunque. L’affermazione del premier Netanyahu che cose del genere, cioè morti innocenti uccisi per errore, succedono in guerra, non giustificano nulla. E’ un momento pericolosissimo. L’intera comunità internazionale, a partire dagli Stati Uniti, chiedono che si rispetti la Risoluzione dell’Onu. Ed è la stessa richiesta che è venuta dall’imponente manifestazione di Gerusalemme. Fermare l’escalation di Netanyahu e ottenere la cessazione delle operazioni di Hamas sono due obiettivi inscindibili”. Sono voci, anche queste di pace, che sarebbe utile, rispettando il valore della politica (e del pluralismo), non mortificare.

Oreste Pivetta

 



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