7 marzo 2023

PISTE CICLABILI

Tra delusioni e speranze


copertine am (8)

Parafrasando il titolo di un celebre e un po’ folle film dei fratelli Cohen si potrebbe scrivere che Milano non è una città per vecchi e non è neppure una città per ciclisti. Districandosi tra aree metropolitane si potrebbe aggiungere che anche l’area metropolitana milanese non è per vecchi e per ciclisti e si  potrebbe allungare l’elenco citando tante altre aree della Lombardia, le più congestionate quelle della pianura. Basterebbe uno sguardo dall’alto, una foto dall’aereo. Ma è anche esperienza personale: quanti metri quadri di verde si potrebbero sommare percorrendo le direttrici da Milano a Como, a Lecco, a Brescia, eccetera eccetera., quanti metri quadri di verde sono stati salvati dall’invadenza/invasione  dei capannoni (molti ormai in disuso: a proposito di risparmio del suolo pubblico), dalle palazzine residenziali, dai depositi, dagli ipermercati, dagli interporti.

I ciclobbisti e gli ambientalisti e gli esperti di varie discipline scientifiche, preoccupati per i tassi altissimi di inquinamento e pure per i rischi che derivano dalla nostra sedentarietà, hanno ingaggiato una nobile battaglia a colpi di due ruote, per certi versi vincendola: la produzione e il commercio delle biciclette non sono mai andati in crisi, neppure nei momenti più cupi del Covid. Se i dati dell’Ancma, l’associazione dei produttori, sono attendibili, l’anno scorso si sono vendute a Milano sessantamila biciclette.

Non basta, perché, a leggere le gazzette cittadine, colpisce il fervore delle iniziative, dei progetti, dei piani, delle proposte, soprattutto degli annunci, sull’onda di un entusiasmo ciclistico che lascia intendere un avvenire radioso. Ma colpisce anche la quantità, difficile da valutare, delle bici o dei monopattini gettati nel naviglio, abbandonati nelle aiuole, disseminati lungo i marciapiedi e colpiscono altri numeri ancora, questi tragici: 864 incidenti in cui è stato coinvolto un ciclista a Milano, trentaquattro ciclisti uccisi (sono dati del 2021: centottanta in tutta Italia).

Le piste ciclabili sono diventate un valore universale: non c’è forza politica che le rinneghi. A Milano ne sono state realizzate per trecento chilometri, a Utrecht, città olandese di trecentosessantamila abitanti,  ce ne sono per duecento cinquanta chilometri.

Però, se ho carpito l’informazione giusta nella miriade dei messaggi comunali, nel biennio prossimo ci attendono  altri settanta chilometri. Benvenuti questi nuovi settanta chilometri, sperando che non siano come il chilometro e mezzo di viale Monte Rosa, opera evidentemente ciclopica, in attesa di completamento da anni, o come il chilometro da Piazza Melozzo da Forlì  al parco di Trenno, una striscia bianca di vernice sull’asfalto, senza alcuna protezione, ormai scolorita, che non nega l’accesso a chiunque voglia fare una sosta al bar, dal tabaccaio, o dall’agenzia per le patenti.

Da segnalare che, prima che “pennello amico” stendesse quella mano di bianco, i bottegai della zona avevano promosso una raccolta di firme contro la futura “pista ciclabile”. Mi pare che la periferica via Novara non sia messa molto peggio del centrale corso Buenos Aires. Il che dimostra il grado di sensibilità di una parte della cittadinanza. Un’altra parte è quella che corre, in bicicletta o in monopattino, sui marciapiedi con sommo pericolo per i pedoni, espropriati ormai da quella fetta di città che pure sarebbe loro riservata, perché, ahimè, ciclisti e monopattinisti, possono condividere, con altri utenti della strada, prepotenza, villania, indifferenza, persino incapacità: quante sciurette alla moda ho visto transitarmi accanto su biciclette che non sanno guidare. Mica tutti/e sono Sagan, Pogacar o Elisa Longo Borghini.

Condurre una bicicletta non è poi tanto facile, soprattutto su un terreno accidentato come quello rappresentato dalle strade milanesi: quei massi rossi di granito, le rotaie dei tram, le buche, le auto in sosta, le auto che se ne fregano della tua precedenza, le auto che giocano a sfiorarti come se tu fossi un birillo del bowling. C’è di tutto in strada, inferno in terra della nostra traballante civiltà, con l’aggiunta delle novità che  venti o trent’anni fa nessuno avrebbe mai immaginato, alle quali ben pochi sarebbero disposti a rinunciare: chi avrebbe mai detto che un giorno avremmo placato la nostra sete di shopping grazie ai furgoni di Amazon, i più frenetici, i più pericolosi, e la nostra fame con le pizze di Glovo … .

Però leggo anche alcune belle notizie. Fra due anni il Ponte della Ghisolfa, celebrato da Giovanni Testori, sarà percorso da una ciclabile.  Fra dodici anni sarà completato Biciplan,  “un ampio progetto della Città metropolitana che punta a collegare Milano con l’hinterland e i diversi  Comuni tra di loro, attraverso una rete di 750 chilometri…”. Non li vedrò, per ragioni anagrafiche, quei 750 chilometri, ma l’impresa, se riuscisse, rappresenterebbe una svolta e sarebbe utilmente “eroica”, perché un eroismo mi sembrerebbe coordinare tanti comuni, molti dei quali già si sono fatti la propria ciclabile, senza alcuna idea di connessione con le altre.

Così, spesso, capita di percorrere una ciclabile che finisce nel nulla o , a scelta, contro un muro o sul limitare di un gradino. Connettere: questo dovrebbe essere l’imperativo. Connettere ciclabili di città, ciclabili extracomunali, “strade bianche”, cioè sterrati ci campagna che ancora esistono nei dintorni di Milano. Fossi un amministratore affiderei al Politecnico il compito di disegnare una mappa e immaginare un progetto…

Fissiamo quella data: 2035. Fra dodici anni. Perché non dodici anni fa? O venti? La verità è che siamo miserabilmente in ritardo: non solo per realizzare piste ciclabili, ma anche per contenere il traffico di veicoli privati, in una politica urbanistica che favorisse il decentramento, persino nella sensibilità e nella cultura diffusa nel segno del rispetto dell’ambiente, dell’economicità che il servizio pubblico consente, dell’utilità universale di una mobilità affidata alle biciclette a costo energetico zero.

Se davanti a casa mia vedo fila di SUV giganteschi ad accogliere bambini all’uscita dall’asilo, penso che qualcosa non funziona nella mentalità urbana. Solo le velate mamme nord orientali vanno a piedi.

A rimediare, servirebbero misure drastiche, che nessuno avrebbe il coraggio di prendere: troppi voti a perdere. Ma una politica di aggiustamento sarebbe possibile: piccoli cambiamenti che corrispondano ad un disegno generale. Siccome si parla di nuovi stadi, immaginarli senza spianate di parcheggi sarebbe impossibile?

Oreste Pivetta

 



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  1. Giovanni BuaGentilissimo Oreste Riallacciandomi al finale del suo articolo (e da architetto appassionato di mobilità) penso che un segnale di inversione di tendenza si avrà quando il Comune smetterà di chiedere i posti auto nell’ambito delle nuove costruzioni/ristrutturazioni edilizie (oggi se non li realizzi devi “monetizzare”) premiando viceversa chi rinuncia ai box e realizza ampi parcheggi bici a servizio degli edifici e della città
    8 marzo 2023 • 11:25Rispondi
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