8 febbraio 2022

LE DIECI MENTI PIÙ BRILLANTI O MIGLIAIA DI CITTADINI CAPACI?

Milano una città aperta e molteplice


il cittadino (1)

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Ho letto con sgomento e un po’ di raccapriccio la proposta di un consigliere comunale di maggioranza (il capogruppo dei Verdi Monguzzi ndr) secondo cui bisognerebbe rilanciare l’azione amministrativa “sfidando le dieci menti più brillanti della città a elaborare cinque progetti concreti per la Milano del futuro”. 

Credo che serva esattamente il contrario. Penso anche che dichiarazioni di questo genere mostrino un fraintendimento e una mancata comprensione proprio di quelle che sono le caratteristiche tipiche e vincenti della nostra città. Che sono innanzitutto la sua molteplicità; e la sua capacità di includere. Milano è sempre stata una città aperta, senza la puzza sotto il naso, non elitaria: cosa che possiamo vedere ad esempio nella sua grande varietà e frammentarietà  (ma anche vivacità) del suo tessuto urbano, economico e sociale, o dalle sue strette relazioni con il territorio all’intorno da cui sa attirare e trattenere il meglio senza pregiudizi (come testimoniato ad esempio da tutti  gli Annoni, gli Inzaghi, i Giussani, i Vimercate, i Colnaghi; i Besana, i Cesana, i Galbiati, i Luraghi; i Sirtori, i Brioschi, gli Arosio, i Molteni: tutti cognomi di gente nata e cresciuta nei paesini e scesa in città a lavorare, perché era brava). Che senso ha pensare alle “dieci menti più brillanti”? Le menti sono migliaia, questa è la forza di Milano, basta saperle fare parlare. Quando invece si pensa di affidarsi ai “testimoni privilegiati” (come facevano i Sindaci ai tempi della “Milano da bere”) si sbaglia sempre o quasi. 

Quando ad esempio ci si affida a una grande e bravissima archistar – che è pur sempre solo un architetto – per risolvere problemi che sono invece urbanistici e sociali, e che quindi hanno una diversa natura e richiedono diverse competenze, anche lì si sbaglia e il risultato spesso è solo uno spreco di soldi e progetti che non funzionano (ogni riferimento al bravissimo Renzo Piano e al suo progetto per Ponte Lambro è del tutto non casuale). E questo è il secondo errore, dimenticarsi della specificità dei problemi (ofelé fa il to mesté, si dice non a caso).

Far balbettare a qualche famoso designer qualche banalità sul PGT o altre cose su cui non sa niente (come purtroppo si tende a fare ultimamente) spesso si risolve purtroppo in una stanca ripetizione di luoghi comuni (la resilienza, i talenti, ecc, ecc):  sono purtroppo anche gli strascichi dell’infelice slogan “dal cucchiaio alla città” per cui alla fine tutto è questione di stile e di improvvisazione, e non di conoscenza dei problemi: ma voi prendereste un urbanista o un sociologo per progettare un cucchiaio? Certo che no, ma allora perché il contrario? In tutte le cose complesse ci vuole competenza, esperienza, multidisciplinarietà: non dieci menti e cinque progetti.

E poi ci vuole ascolto, apertura: cosa che purtroppo non avviene, questo è il punto. Chiunque ad esempio abbia letto le cosiddette controdeduzioni alle osservazioni a uno strumento urbanistico, sa ahimè che spesso queste osservazioni non vengono neanche lette, se lette non vengono capite, e se capite vengono ignorate, anche se ragionevoli e ben argomentate, se sollevano temi e problemi che non si intendono affrontare; e magari perché presentate da un cittadino qualunque e non da una delle “menti più brillanti” (cito a questo proposito la questione abitativa – ma ce ne sarebbero tante altre – , sotto gli occhi di tutti ma bellamente ignorata nonostante le tante segnalazioni fatte in sede di PGT, semplicemente perché non in agenda politica; tranne scoprire poi improvvisamente che il problema c’è – i dati lo indicavano da tempo – e cercare affannosamente una veloce soluzione: ma le case a prezzi ragionevoli non si costruiscono in un battibaleno, servono processi che durano anni o decenni di lungimiranza e ostinazione, non l’improvvisazione momentanea. Ma gli esempi ripeto potrebbero essere tanti…).

E quindi infine l’altro elemento è la continuità nel tempo: i risultati sono figli delle strutture stabili che ci si è dati, ma anche qui purtroppo ci sono cose che notoriamente non funzionano. Sempre per fare un esempio, quanti sanno che sono anni che il Comune di Milano non fa un concorso vero, aperto a tutti, per scegliere i suoi dirigenti? Sono almeno venticinque anni (dall’assessore Lupi) che i dirigenti vengono selezionati solo fra chi è già dipendente, oppure nominando tali i funzionari senza concorso, oppure chiamandoli da altri Comuni: per cooptazione insomma; e inevitabilmente dirigenti mediocri sceglieranno sottoposti ancora più mediocri di loro, che non gli sollevino problemi. In questo modo è inevitabile creare un gruppo coeso di yes-man, che certo non solleva problemi, ma neanche se ne esce fuori con soluzioni inventive o visioni innovative. Ma di cosa hanno paura, c’è da chiedersi? Forse che arrivi qualcuno più bravo di loro? Ma è esattamente quello di cui avremmo bisogno: aprire le porte, far circolare le idee, e che i più bravi vengano avanti. 

Ma il punto è che la nostra classe dirigente è ossessionata (leninisticamente parlando) dal mantenimento del potere, dalla raccolta del consenso e quindi della messa al bando delle critiche (anche garbate) e dei diversi punti di vista (anche se argomentati e ragionevoli), un po’ modello Bulgaria dei bei tempi andati (che evidentemente è rimasta nell’immaginario di qualcuno).

Milano però è fatta in un altro modo, è aperta e molteplice; e questo è il suo bello. Vediamo di aprire le porte non ai dieci più brillanti, ma alle migliaia e migliaia (e migliaia) di capaci.

Il cittadino perplesso

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  1. Pietro VismaraSenza scomodare Lenin, "mantenere il culo attaccato alla poltrona" sembra essere stata la principale motivazione degli estensori del PGT ;-)
    17 febbraio 2022 • 22:04Rispondi
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