25 gennaio 2022

Requiem per il Pirellino

Un peccato


imm. sacerdoti

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Da anni giace abbandonato, sventrato, ricoperto di pubblicità, in attesa di un destino ormai segnato. Per quasi cinquant’anni la torre dei servizi tecnici comunali è stata un incubo per molti milanesi, costretti ad andarci per tentare di risolvere le rognose faccende dell’edilizia privata, a perdersi nei corridoi male illuminati, a combattere contro opachi e incomprensibili muri di burocrazia, a disperarsi (gli architetti) per interminabili code e approvazioni sempre negate dei loro progetti. Un monumento involontario alla dubbia efficienza della macchina amministrativa del Comune, macchiata in anni non lontani da manovre poco chiare, in odore di Tangentopoli.

Era il mondo delle scartoffie, delle pareti e dei soffitti prefabbricati e pericolanti, delle luci al neon a singhiozzo, del degrado fisico e forse anche spirituale.  Insomma, una sorta di incubo kafkiano, per il quale credo nessuno oggi avverta la minima nostalgia, e la cui tradizione si perpetua forse nei nuovi uffici di via Sile, in barba all’efficientismo aziendalista e digitalizzato propagandato dal City Manager Beppe Sala. Per arrivarci comodamente con i mezzi pubblici, ai suoi piedi fu scavata nei primi anni Settanta la stazione M2 di Gioia, che sputava gli impiegati di prima mattina e li ingoiava a fine giornata: un’immagine da tardo boom economico, o da primi anni di piombo, immersa nella nebbia e nello smog, che erano probabilmente la stessa cosa.

Credo di essere stato uno degli ultimi a frequentare saltuariamente questo strano luogo, scortato dalla guida sicura di mio padre, che ne conosceva tutti gli anfratti e buona parte degli occupanti, e grazie al quale scoprii il salone interrato con il metafisico dipinto della Città analoga di Arduino Cantàfora, cimelio sopravvissuto agli anni ’70, e la cima del corpo a torre, dove una esile, elegante scala elicoidale collegava gli ultimi due piani del coronamento: gli uffici privilegiati “vista Duomo”. Mentre anni prima, da bambino, mi aveva colpito il varco del corpo a ponte, che segnava l’inizio e la fine delle vacanze in montagna coi miei: spesso bloccati in notturne e interminabili code al semaforo, in un’atmosfera surreale degna di certi film di Fellini o di Tati.

Ma nonostante tutto non era un brutto edificio, e forse avrebbe meritato una fine diversa da quella che – sbandierata dai media e dai social – pare ormai inevitabile: il solito restyling, con tanto di strip-out e recladding; tutti vocaboli inglesi, perché da noi se vuoi “fare figo” e mostrare che sei “sul pezzo” devi parlare così: Milanese Imbruttito docet. Un progetto che a Milano ormai conoscono tutti – da quando Coima ha sbandierato i rendering urbi et orbi prima di chiedere qualunque permesso all’amministrazione, tanto ormai l’approvazione è scontata – e che comporta un consistente aumento della volumetria, l’ormai imprescindibile bonus generosamente concesso dal Comune dopo un po’ di tira e molla. 

Del resto il Comune ne ha tutto l’interesse, perché il progetto è griffato dagli studi di Stefano Boeri, Elisabeth Diller e Ricardo Scofidio (quelli della famosa High Line newyorkese, insieme ai soci Charles Renfro e Benjamin Gilmartin), che garantiscono un impeccabile greenwashing nonché una bella quota di oneri di urbanizzazione, con il bonus volumetrico che si traduce nella torre residenziale prevista verso la Biblioteca degli Alberi: magnifici appartamenti di lusso “vista parco” in un edificio che rielabora la fortunatissima formula del Bosco Verticale, che ormai spopola in mezzo mondo grazie alle abilità mediatiche del suo inventore. In questo caso – a giudicare dai rendering – si tratta di una versione addomesticata: la figura è quella di un compatto e goloso millefoglie al pistacchio, Egyptian Style

Ciliegina sulla torta la serra – pardon, greenhouse –, una specie di enorme blob trasparente che farà rimpiangere la sobria eleganza dei tre piani a uffici del vecchio corpo a ponte, e collegherà con uno spazio “pubblico” – almeno a parole – la torre vecchia a uffici con quella nuova ad abitazioni. In tutto questo rimane ben poco del vecchio edificio dei servizi tecnici comunali: l’ossatura in cemento armato, la geometria complessiva (torre nuova esclusa) e lo scavalcamento di via Melchiorre Gioia (anche se stando alle ultimissime notizie sembra questa parte non si realizzerà).

A questo punto provo a spezzare una lancia per il vecchio edificio, che nonostante tutti i suoi difetti (certo aggravati dal tempo e dall’incuria) aveva anche qualche pregio. Fu progettato da una squadra di quattro architetti, esponenti di quel “professionismo colto” che tanto appassiona i cultori dell’architettura milanese del secondo dopoguerra. Nella squadra c’erano Aldo Putelli, Renato Bazzoni, Luigi Fratino, e soprattutto il capogruppo Vittorio Gandolfi, originario di Salsomaggiore e prolifico autore di numerosi edifici e quartieri, in particolare a Milano, spesso pubblicati su “Domus” e altre prestigiose riviste d’architettura.

L’edificio, vincitore di un concorso nel 1955 e concluso nel 1966, non ebbe mai la fortuna critica del Grattacielo Pirelli, della Torre Galfa o della Torre Velasca, suoi “fratelli maggiori” per età e altezza. Tuttavia non mancava di una sua dignità, e vantava anche qualche particolare degno di nota. Il rapporto tra il corpo basso sollevato su pilastri e la torre riproponeva lo schema del broletto medievale, ripreso negli stessi anni da Piero Bottoni nel più celebre palazzo del Comune a Sesto San Giovanni, mentre il corpo a ponte evocava la presenza del Naviglio della Martesana, che scorre ancora oggi – invisibile e silenzioso – sotto l’asfalto di via Melchiorre Gioia.

Anche i fronti avevano una loro cura e quasi raffinatezza, tentando una sintesi tra il Pirelli (i levigati fronti a nord in curtain wall di alluminio e vetro, le testate a punta del corpo alto, i coronamenti aggettanti) e la Velasca (le vigorose strutture in cemento armato sagomate e rastremate verso l’alto nei fronti rivolti a sud, verso il centro della città). Una sintesi forse non del tutto convincente ma comunque interessante, e tuttavia non sufficiente a generare un movimento d’opinione per evitare lo scempio attuale.

La parte superiore del corpo basso – di cui ora si farà mattanza per lasciare campo libero alla serra – aveva una disposizione planimetrica a corpo triplo: uffici sui bordi, corridoi di distribuzione intermedi, e bagni, impianti, ripostigli, atrii, scale e ascensori nella fascia centrale. Un piccolo saggio di rigore tipologico.

In ultimo un gioiello quasi sconosciuto, che temo soccomberà – se non lo è già stato – alla furia dello strip-out (alias svuotamento): forse qualcuno ricorderà che il collegamento tra la torre e il corpo basso avveniva tramite un sobrio ma elegante volume in vetro a struttura metallica, che conteneva (contiene?) una scala “leonardesca” a doppia rampa incrociata, con gradini e ripiani in massello di granito lucidato, e parapetto in vetro con corrimano in legno sagomato. Una scala elegante e raffinata, degna dei migliori architetti dell’International Style postbellico, di cui condivide epoca, tecnologia e materiali, e che forse possiamo sperare sarà risparmiata (come pare accadrà per la scala del vecchio edificio della Rizzoli, sacrificato per far posto a Kengo Kuma: ma lì c’è la griffe di Piero Portaluppi…).

Can we trust you, Mr. Catella?

Pierfrancesco Sacerdoti

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  1. Cesare MocchiBe' gli uffici dell'edilizia privata nel corpo basso erano effettivamente un po' un incubo. Ma gli uffici dell'urbanistica e dei lavori pubblici nel corpo alto no, erano luminosi, con una bella vista... perché parlarne male?
    26 gennaio 2022 • 11:14Rispondi
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