12 ottobre 2021

SALVATORE VECA E MILANO

Le ragioni del cambiamento


imm. rolando (1)

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A metà del 2017 – nel quadro di un lungo rapporto di amicizia e di frequentazione culturale e civile – chiesi a Salvatore Veca la disponibilità a un colloquio registrato sui temi del cambiamento di Milano visibili a valle dell’esperienza dell’Esposizione Universale alla quale lui aveva dato sostegno e partecipazione intellettuale. Un testo per le conclusioni del rapporto “Atlante Brand Milano” che, con le prefazioni del sindaco Beppe Sala e del rettore della Statale Gianluca Vago, insieme ad altri due colloqui (con Giuseppe De Rita e Emma Bonino) avrebbe concluso il rapporto “a cento voci”, poi edito da Mimesis e presentato a novembre in Quirinale al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Vorrei riproporre quel colloquio in occasione della dolorosa notizia della scomparsa di Salvatore Veca perché esso contiene la connessione di tre cose che stavano molto a cuore al filosofo e animatore culturale tra i più autorevoli del nostro tempo: il pensiero, la città, il mutamento identitario. Questo il testo.

A conclusione di quello che abbiamo chiamato “Atlante Brand Milano” – dunque non un rapporto o un piano ma una semplificazione in “carte” di una complessità – traiamo qualche conclusione con un filosofo, con un sociologo e con un’esponente politico (donna) che si occupa di città, di nazioni, di Europa e di mondo. Due sguardi diciamo esterni e uno da milanese (pur nato a Roma) “interno”. Interno ma pur sempre filosofico, quindi con il distacco della ragione. Anche il filosofo plaude al “cambiamento” della città?

Per ragioni di mestiere la devo prendere “con filosofia”. Ma in realtà posso guardare la questione in due modi: da osservatore o da partecipante. Da osservatore dico che sono venuti a maturazione negli ultimi anni (Expo, più che un a quo è un ad quem in questa vicenda), anche per effetto dei processi di globalizzazione, fattori che hanno fermentato la civitas. Guido Martinotti distingueva, nel cambiamento delle città, processi connessi alla urbs (la struttura fisica della città) e connessi alla civitas (il corpo morale della città, il suo popolo). Cambiamenti funzionali di parti della città, nuove socialità, sviluppi del ruolo della ricerca, crescita di attrattività, a poco a poco hanno attraversato la pelle di Milano. Tra il 2007 e il 2008 c’è stata la percezione (non in tutti, ma in alcuni settori significativi sì) che questi fenomeni carsici chiedevano di emergere. Da qui la connessione con la “avventura Expo”. Oggi parliamo di Milano trasformata da Expo, ma in realtà i fattori di trasformazione pre-esistevano e si sono addensati in un effetto non atteso, diciamo inaspettato.

Ma forse, parlando “da partecipante”, quell’effetto lo si poteva anche prevedere, no?

In questo senso sì, lo si poteva prevedere. Ma se ci ricordiamo il clima generale, quasi tutti non sapevano cosa sarebbe accaduto. Ma solo oggi, a cose fatte, guardando il fenomeno nel suo rapido ma non brevissimo ciclo, si possono leggere quelli che chiamiamo “cambiamenti”. Da “partecipante” debbo dire che i fermenti cominciavano ad avere una lettura nuova, quella del “fare sistema”. Al tavolo in Expo – che coordinavo insieme al ministro Martina sulla “Carta di Milano” (cioè in materia di alimentazione sostenibile) – questa tendenza, invocata ma non compiuta per Milano, la si coglieva molto bene: dalla Cascina Triulza alle grandi imprese alimentari. Il latente diventava patente.

In quella “latenza” c’è continuità di processo nelle amministrazioni milanesi del nuovo secolo?

Vedo nella Amministrazione Albertini la gestione di parti del cambiamento della urbs. All’Amministrazione Moratti si deve l’avere voluto con determinazione Expo. L’Amministrazione Pisapia ha restituito orgoglio civico ai milanesi. Poi ci sono state evidenti differenze di politiche e di culture politiche. E anche deficit.  Ma la traiettoria di quel processo che chiamerei della primavera milanese ha attraversato queste amministrazioni.

Ci dicono gli esponenti della stampa estera – con elogi e vari apprezzamenti – che un Expo non fa trasformazione di brand, perché è figlio di tante sedimentazioni. Vale anche per questo Expo?

La mia tesi sui processi carsici vuol dire esattamente questo. Capisco che, in realtà dominate da notizie/evento, Expo possa apparire come una matrice di tutto. Ma molto cominciava da prima. Caso mai è lecito dire che c’è una Milano prima di Expo e una Milano dopo Expo. Expo è stata resa possibile da ciò che c’era prima, Expo ha messo in modo una chiarificazione sull’identità del nostro avvio di terzo millennio.

Abbiamo anche cercato di capire se nello sguardo alla città interno ed esterno – qui in un certo senso parliamo di “immagine” – ci sono irrisolti evidenti. Chi dice l’aria, chi dice il verde, chi dice il traffico (tutti ammettendo che qualcosa si è fatto), chi dice la città metropolitana per aria, chi dice la politica milanese buona per gli affari interni ma poco capace di agire sullo Stato, chi dice il caro-città, chi dice…Si nota qualche ombra?

Penso che un nodo sia l’irrisolta questione della città metropolitana. Da essa dipende un nuovo sistema vertebrale. In secondo luogo – anche qui ci sono molte condivisioni – c’è un approccio necessariamente diverso alle periferie. Il cosiddetto “rammendo Renzo Piano” richiederebbe un’estensione al di là delle sperimentazioni avviate. È evidente che le periferie sono eredità stretta dell’età industriale. Ma oggi si trovano sull’asse di una riconsiderazione urbanistica che toglie loro persino la storica dizione di “periferie”. Oggi – e forse da molto tempo – esse sono parte della città policentrica. Di cui ciascuna di quelle ex-periferie diventa un nodo della nuova accessibilità e della nuova mobilità. Ma il punto di partenza è che in esse si annidano i fattori che determinano oggi le maggiori solitudini sociali della città.

Si potrebbe parlare ancora oggi di Milano città generata modernamente dall’Illuminismo?

Ah…domanda difficile. Ma ci sono dei tratti che rendono possibile questa definizione. Diciamo tenui fili. Nei momenti migliori della vita della città si può cogliere l’esistenza di quei tenui fili. Insieme ad altri fili. Cosicché non penso si possa dire che ci sia un marchio “Illuminismo” che copra oggi la sintesi identitaria della città. Ma in certi momenti ancora oggi senti l’eco di Verri, Beccaria. Fino a Cattaneo. Un certo approccio all’accesso alla conoscenza, l’idea che sapere vuol dire anche “saper fare”, l’idea che le istituzioni debbano essere gradualmente e costantemente riformate a seconda dell’efficienza o dell’inefficienza che esprimono, l’idea che si deve convivere nella diversità delle culture, sono parte di questi momenti.  Poi altre luci e altre ombre.

Quel “tenue filo” spingerebbe a dire che tra Milano e Napoli questa eredità resta ancora condivisa e condivisibile?

Perché no? Penso che sarebbe un auspicio straordinario. L’illuminismo italiano è milanese e napoletano. L’economia civile è ispirata a queste due scuole. La loro è una lezione europea. Tra l’altro promuovendo due “porti” culturali per i traffici dell’idea di Europa, una verso il continente, l’altra verso il Mediterraneo. 

Milano – i cui politici di maggior fama da Turati a Mussolini, da Craxi a Berlusconi – hanno avuto a che fare con l’Italia, così come le sue fabbriche, i suoi prodotti, le sue università, i suoi chansonnier, eccetera, modernamente parlando è simpatica o antipatica agli italiani?

Credo che prevalga la simpatia sull’antipatia, che – è vero – è esistita ed esiste. Perché il principio di attrazione resta più forte. Un’attrazione di tipologie diverse di persone, che ha dato buona prova di sé nel tempo, non una volta ogni tanto. Aggiungo alle tipologie citate di fattori di relazione con l’Italia (e con il mondo), quello delle comunità religiose con un posto storicamente di rilievo per la Diocesi ambrosiana che ha avuto più volte grandi personalità alla sua guida, molte volte nel deserto di altre leadership. 

Così che quando il presidente Mattarella a chiusura di Expo parla di Milano “capitale europea e motore dell’Italia” (le risposte in questo dossier sono diversificate) ci coglie oppure bisogna fare dei distinguo?

La prima cosa che vorrei dire è che “capitale europea” – che parrebbe cosa scontata – è altrettanto impegnativo che dire “motore dell’Italia”. Quel “capitale europea” presuppone un assetto che è precondizione della seconda espressione. Capisco i risvolti complessi di questa seconda espressione, ma credo che sia condiviso il fatto che Milano può essere un esempio per l’Italia. Se pensiamo al sistema universitario oggi come generatore di competenze ben al di là degli studenti nativi nel territorio, ne abbiamo un’idea. Ma un’idea – a proposito di esempio – ci viene soprattutto dal livello raggiunto da Milano nel “fare sistema”. Non era così solo dieci anni fa. Non motore, ma esempio.

Una domanda all’operatore culturale milanese. Li vogliamo o no i turisti? Lusingati dall’aver (forse) bypassato il turismo a Roma e grati al Sindaco per aver lanciato una grande operatività di consolidamento. Ma poi quelli vengono e lei conosce certe mentalità…

Beh, molto semplice. Gli vogliamo o meno, dobbiamo volerli. Se apri a spettro ampio una politica di attrattività, questo aspetto rientra appieno. Tenendo conto che una volta si veniva a Milano per delle occasionalità. Adesso venire a Milano è, diciamo così, più impegnativo. L’offerta è più complessa, gli eventi sono tanti, le porte di molti luoghi si sono aperte. Oggi – l’espressione è di moda – il problema del turismo è “esperienziale”. Diversamente esperienziale. Ciò che, ancora una volta, spinge e obbliga a fare sistema.

Da qui anche un ripensamento su “Milano, Mediolanum, Terra di mezzo”, in uno spazio crescente per l’aspetto di città di destinazione. O no?

MI pare che oggi le due forme – di passaggio e di destinazione – abbiano raggiunto un loro equilibrio. Con la previsione che aumenti, da qui in poi, il carattere di destinazione che non è un’esperienza nuova ma legata a cicli di immigrazione, nazionale e internazionale, che sono stati rilevanti nel ‘900.

Più in generale, nella distinzione di scuola tra branding marketing, diciamo che il branding segue e indirizza la narrativa (tra identità e immagine), il marketing organizza l’attrattività. Marketing alla fine vuol dire “vendere”. Come si leggono le due città che amano e che non amano “vendere” Milano?

Ovviamente le due città convivono, nel carattere plurale che caratterizza Milano da tempo. Esse esprimono un equilibrio instabile tra la cultura della preservazione e la cultura commerciale che non è di oggi. Ma la considero una tensione positiva. In cui auspico che possano rifiorire i “luoghi del cuore”. Non vorrei essere frainteso. Intendo con questa espressione luoghi che esistono solo se qualcuno li racconta. Apprezzo l’espressione “Atlante” per raccogliere queste opinioni, ma in questo caso io uso l’espressione “Mosaico”, con tasselli di pari importanza che, per preservare i luoghi, li deve rappresentare e raccontare.

Questo rapporto tra identità storiche e nuove esigenze funzionali si dovrebbe estendere anche ad alcuni centri importanti dell’area metropolitana in cui porsi lo stesso problema di memorie e innovazioni identitarie…

Mi viene in mente una variante delle frasi di Ovidio “Omnia mutantur, nos et mutamur in illis”. Tutto cambia e noi cambiamo nel tempo.  Non sono un identitarista forte, cioè non credo alla “forte identità”. Credo alla coltivazione di storie che consentano alla gente di restare nei loro percorsi di memoria.

Una domanda al professore: nell’attrattività della città si pone (per comparatività internazionale) il tema dell’attrattività internazionale universitaria. Un po’ lo si fa anche nelle pagine che ci precedono. Con il warning del dato che limita l’attuale esito al 6,5%. Quale commento?

Sull’università e la sua internazionalizzazione vorrei solo segnalare che il “fare sistema” qui non può riguardare solo la rete degli atenei milanesi perché quella rete prende senso storico e di attualità nella sua dimensione regionale. Milano ha conosciuto uno sviluppo recente di una parte certamente accreditata delle sue università. Ma Pavia da un lato, come Bergamo e Brescia dall’altro, rappresentano parti connesse e ineludibili di quel sistema con grandi tradizioni. Il vero sistema competitivo per noi è quello tedesco e i caratteri di tradizione sono uno dei fattori più importanti su cui reggere quella competizione.

Non vorremmo chiedere ad un filosofo di fare l’urbanista. Ma restando al campo della sua strumentazione culturale, per il futuro di Milano – avendo gli occhi puntati sulla fotografia del satellite che segnala Milano al centro di una grandissima dimensione urbana diffusa –   è più convincente la forma di borgo, di città, di città metropolitana, di città-regione, di città padana diffusa, di città-Stato o di global city?

Quella fotografia era raccontata da Guido Martinotti come la metacittà. Flussi e densità parlano chiaro. Ma dentro queste estensioni si rischia di perdere un tempo infinito attorno a problemi di governance. Mentre la creazione della città metropolitana è già una politica normata. Credo che portando a termine questo progetto si avrà anche un grande territorio interno a quel più diffuso tessuto, che avrà dimensione e forza per sviluppare progetti alla sua misura e a misura del più vasto territorio circostante.

Comune e Assolombarda hanno presentato una banca dati sull’attrattività di Milano in cui la scelta di confrontare la città riguarda quattro città considerate omogenee: Barcellona, Monaco, Stoccarda e Lione. È appropriato questo “competitive set” o va immaginato diversamente?

Penso che la scelta sia stata fatta attorno a città non capitali. Per alcuni aspetti che caratterizzano le vocazioni di Milano si potrebbe discutere questa scelta ristretta. Ma intanto è importante aver avviato un quadro di confronti, che ci abitua ad usare i dati e le statistiche in un modo serio e migliorativo. Appare chiaro che Amsterdam almeno dovrebbe far parte di questo ambito di confronti. E forse anche altre città. Ma intanto abbiamo avviato il tema dei confronti, che comunque ci fa alzare l’asticella. 

Tra gli esiti del cambiamento recente, la “trasformazione “di Fondazione Feltrinelli, rappresentata a lungo come presidente e ora come presidente onorario. Quali sono i punti chiave del progetto?

Fondazione Feltrinelli per anni ha promosso un vasto programma connesso ai temi della globalizzazione. Da questo punto di vista ha accompagnato uno dei fattori che ho chiamato “carsici” della lunga trasformazione di Milano. Nel quadro di Expo è stato rilevante l’impegno per portare a condivisione – politica e sociale – la “Carta di Milano”. Poi dopo Expo la costruzione della nuova sede di via Pasubio che sta diventando un luogo cult di Milano, con una biblioteca che attira i giovani e con una frequentazione (attività, eventi, iniziative permanenti) di strabiliante dimensione.

Parlo a un rappresentante di una scuola intellettuale milanese che la città ha molto riconosciuto e apprezzato. Abbiamo ritrovato pubblicato una sorta di cenacolo di questi intellettuali che all’inizio degli anni ’90 hanno scritto tutti sull’immagine di Milano. C’è un ultimo contributo in vita di Mario Dal Prà. C’è anche Salvatore Veca, alla pagina 254.  Si possono comparare gli sguardi di questa comunità diciamo un quarto di secolo dopo?

Non ho più un ricordo esatto di quella pubblicazione, ricordo i commenti della sua curatrice Marina Calloni, ma non il dettaglio dei contributi. Se penso al rapporto tra gli intellettuali milanesi e l’immagine della città in quegli anni e oggi parlerei di sostanziale cesura, dato il carattere di crisi di quella stagione e il riconoscimento che non ci diamo da soli di una certa effervescenza in questo periodo.

Prima di Expo da una nostra indagine in collaborazione con Ipsos usciva la vecchia impressione dei milanesi criticoni. Ora il mood mediatico sarebbe quello della città autocompiaciuta. È lo stesso people? Sono cambiate le cose?

Sempre gli stessi. È una storia che si ripete.

E parliamo ancora con chi ha scritto filosoficamente di “incompletezza”. E del resto l’opera d’arte più seduttiva del patrimonio milanese è forse la Pietà Rondanini, appunto incompleta. Come e dove va applicata questa categoria al processo identitario della città?

Si parlava di preservare identità e di sostenere il cambiamento, appunto un equilibrio instabile. Ebbene ciò richiede una consapevolezza. Che l’ultima parola che si pronuncia su questo equilibrio sia in realtà la penultima. 

Un’ultima domanda. Che rapporto hanno i milanesi con quello che chiamiamo “patrimonio simbolico”?

In uno dei libri più belli di Italo Calvino (Le città invisibili) si dice che la città dei nostri viaggi o delle nostre indagini deve poter rispondere a una nostra domanda. Appunto una domanda di senso. In questo nesso leggo la natura del patrimonio simbolico.

Stefano Rolando

 



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