25 novembre 2019

IN 100.000 CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE

La storia poco raccontata di Non Una di Meno a Roma il 23 novembre


PER COMINCIARE - Partecipare ad un evento e leggerne i resoconti sui media lascia spesso la bocca amara. Io c'ero e ho visto: un resoconto sulla giornata contro la violenza di genere organizzata da "Non Una di Meno" a Roma il 23 novembre. Una cronaca che è anche spunto per riflessioni di ampio respiro sui movimenti femministi e sul loro rapporto con la politica e le istituzioni, che sono latitanti nella difesa della parità di genere sul territorio.

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23 novembre 2019 – 4 di mattina. Non è normale, penso mentre esco di casa, aver dovuto infilarmi i vestiti più informi che possiedo, solo per sentirmi al sicuro sui mezzi pubblici. Non è normale che mia madre si svegli per chiamarmi, e controllare che io arrivi a Lampugnano sana e salva. Non è normale, ed è anche per questo che oggi vado a Roma in occasione della manifestazione contro la violenza sulle donne e la violenza di genere indetta dal movimento Non Una di Meno (d’ora in avanti N1DM).

Quest’organizzazione transfemminista (un termine che serve ad indicare l’inclusione della comunità LGBTQIA+1 e in particolare delle donne transgender) è nata in Italia nel 2016 ispirandosi al movimento argentino Ni Una Menos, oramai presente in tutta l’America Latina e nel mondo. In quattro anni N1DM ha costruito una rete invidiabile di persone e realtà locali (centri antiviolenza, consultori, centri sociali, etc.) in 80 città italiane sparse per tutta la penisola.

Come racconta Elena, una delle attiviste milanesi di N1DM, “Questa data per noi è costitutiva. Sono ormai quattro anni che veniamo a Roma per manifestare intorno al 25 novembre”, la Giornata Mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita nel 1999 dall’ONU. In un paese dove l’84% dei femminicidi, nel 2018, è avvenuto “in famiglia” (per mano di un partner o di un parente)1, e non a causa di un aumento della criminalità come si tende a pensare, un evento come questo è da considerarsi di primaria importanza.

I media, che hanno ignorato quasi del tutto la cosa (prendiamo ad esempio Repubblica, che nell’edizione del 25 novembre dedica alla Giornata in tutto due facciate intorno a pag. 21), non l’hanno capito. È consolante invece che lo abbiano compreso le cittadine e (sorpresa!) i cittadini che, in più di 100.0002, si sono trovate in Piazza della Repubblica a Roma per manifestare il loro dissenso.

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Stupite che io usi il femminile plurale, al posto del grammaticalmente corretto maschile? Lo faccio perché chi camminava per le vie di Roma sta cercando di smantellare, concretamente, un “patriarcato” che doveva essere spazzato via dalle tre ondate femministe già avvenute, e che invece ancora opprime tutti i soggetti che si rifiutano di sottostare alle sue regole. Il linguaggio è uno dei silenziosi strumenti di quest’oppressione, ed è ora di riconoscerlo.

La violenza contro cui abbiamo manifestato non è solo quella fisica: è anche la violenza istituzionale di uno Stato che non rispetta la Convenzione di Istanbul, che impone la presenza di un centro antiviolenza ogni 10.000 abitanti: la sindaca Raggi a Roma ha chiuso Lucha y Siesta, centro che dal 2008 si prendeva cura di 15 donne e 7 bambini, in un’Italia che presenta uno scandalosamente inadeguato rapporto di 0,05 centri ogni 10.000 abitanti2.

È la violenza psicologica che subiscono ogni giorno milioni di donne, di persone transgender e omosessuali, perché devono sempre e comunque rischiare e faticare più del maschio cisgender3, bianco ed eterosessuale per ottenere quelli che dovrebbero essere diritti di base: salute, lavoro, parità salariale, giustizia. È violenza anche il silenzio dei mezzi d’informazione, che non parlano mai di queste soggettività se non quando è troppo tardi; e, anche in quei pochi casi, si rendono colpevoli di narrazioni tossiche che dipingono degli assassini come vittime di “troppo amore”, “momentanea follia” e via dicendo.

“Contro questa violenza sistematica, N1DM ha capito che si può agire solo in autonomia”, dice Elena, fuori dalla “gabbia istituzionale” e dal sistema dei partiti. “Solo così “– autofinanziandosi e senza alcun sostegno da quelle istituzioni che da quest’organizzazione avrebbero solo da imparare – “possiamo rispettare la nostra priorità: intervenire concretamente con delle alternative che portino miglioramenti nella vita delle persone”. Cosa che hanno già fatto: per tornare alla questione della narrazione tossica, N1DM ha incontrato a Milano l’Ordine dei Giornalisti per chiedere che questo modo di raccontare la violenza di genere diventi, com’è previsto anche dalla già citata Convenzione di Istanbul, illegale.

Tremolada_2Sfilare per Roma non è un rimedio a tutte queste violenze, ma l’energia sprigionata dal corteo che intona: “Siamo il grido, altissimo e feroce, di tutte quelle donne che più non hanno voce!” è almeno un ottimo palliativo. Cartelli e striscioni decorano la marea umana che si riversa sul percorso da P.za della Repubblica a P.za San Giovanni con gli slogan più diversi: “Quello delle mestruazioni è l’unico sangue che non viene dalla violenza, ma è quello che vi fa più schifo”; “Se toccano una toccano tutte”; “Sono stanca di essere come mi vogliono tutti, stanca di vivere come vorrebbero gli altri”; “In questo mondo patriarcale non studiamo per bellezza, studiamo per lottare”, e così via.

Alle 16.30 il momento più toccante, un vero pugno nello stomaco: tutto il corteo si siede, in silenzio, per un minuto. Ricordiamo Daniela Carrasco, la “Mimo” trovata impiccata ad una staccionata lo scorso ottobre durante le manifestazioni in Cile5. E soprattutto, insieme a lei, tutte le vittime di femminicidio e violenza di genere. Poi urliamo, fortissimo. In un Paese, in un mondo che ci vuole zitte e ubbidienti, “Noi Siamo Rivolta”, si sente dagli altoparlanti del camion che sta in testa al corteo.

Ma chi oggi è venuto a Roma non lo ha fatto esclusivamente per le vittime di violenza di genere (a cui pure è stata data la giusta priorità assegnando l’apertura del corteo a donne, centri antiviolenza femministi, case delle donne etc.): i cori, i manifesti e i simboli sono anche quelli dell’antifascismo, dell’antirazzismo, dell’ecologismo, del pacifismo. Senza compromessi.

Rifletteteci: non è un caso.

Elisa Tremolada

1LGBTQIA+: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender, Queer, Intersessuali, Asessuali. Il + serve per includere chi non si riconosce in nessuna di queste categorie.

2Fonte: Ansa.it: http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2019/11/19/aumentano-i-femminicidi-nel-2018-142-donne-uccise_0b2abfee-c6aa-4025-b008-26879efdb873.html

3Fonte: Internazionale.it: https://www.internazionale.it/bloc-notes/giulia-testa/2019/11/25/dati-grafici-violenza-genere?fbclid=IwAR2DW2ZUbyjhF7Ky5lxnW6S-MhikXLsEvbUiRnrgZzUVgGpozGJdTYN24cU

4Cisgender: si contrappone alla parola “transgender” e indica individui che scelgono come identità di genere la stessa assegnatagli alla nascita – es. una donna biologica che si identifica come tale, secondo le norme sociali

5Testimonianze emerse il 25 novembre suggeriscono che si sia trattato di un suicidio trasformato in caso mediatico, ma la notizia non è confermata.



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  1. Andrea PassarellaNon potrei essere più d'accordo, Carrasco a parte che pare si sia davvero suicidata. Non capisco come sia ancora possibile, negare, minimizzare o manipolare quanto avviene alle donne per bieco calcolo politico. Non so quanto la lingua italiana possa essere sessista ma è giusto rivedere il significato di alcune parole e le accezioni di alcune espressioni. Quello su cui mi soffermerei di più è la scarsa cooperazione fra le donne; spesso sono le donne a remare contro, un atteggiamento che non comprendo di fronte all'evidenza dei fatti.
    29 novembre 2019 • 13:16Rispondi
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