13 maggio 2019
PROVINCE: NE’ ABOLIRE NE’ RESTAURARE MA RIFONDARE
Sciocchezze gialloverdi e balbettii PD
13 maggio 2019
Sciocchezze gialloverdi e balbettii PD
Tra i tuoni e lampi della campagna elettorale è balenato un repentino batti e ribatti tra i due principali attori della scena politica attuale circa il destino delle Province, sulle quali è avviata, per iniziativa della organizzazioni autonomistiche, una pur timida discussione per la loro revisione dopo un quinquennio di vigenza della legge Delrio, inframmezzato dalla mancata riforma costituzionale.
Gli squarci polemici tra i due responsabili della maggioranza di governo non hanno in realtà brillato per profondità di argomentazione e consapevolezza istituzionale: da un lato la tesi seccamente abolizionista di Di Maio (liquidazione del “poltronificio”!) che per altro ripercorre inconsapevolmente il vicolo cieco del referendum renziano; dall’altro la velleità restauratrice di Salvini che richiede semplicisticamente il ritorno all’elezione diretta (altrimenti “chi si occuperebbe di scuole e strade?”).
Non pervenuta la posizione del PD, per quanto l’occasione risulti d’oro per una distinta proposta da parte dell’opposizione, per una volta libera dall’imbarazzo di dover scegliere tra le contrastanti posizioni delle due anime di governo, entrambe superficiali e fuorvianti. Purtroppo pervenuta invece la non scontata dichiarazione del presidente PD dell’Unione province italiane Michele De Pascale che semplicemente si accoda: “non ho pregiudizi positivi verso Salvini ma su questo tema ha ragione”! (*).
Se invece avessero torto tanto gli abolizionisti ad oltranza quanto i restauratori delle province tal quali, comprese quelle proliferate ultimamente a sproposito, una soluzione ragionevole si dovrebbe cercare mediante una loro profonda rifondazione, nel rispetto tanto della vigente Costituzione quanto della necessaria razionalità istituzionale ed amministrativa.
Pensare allora a Province 2.0 in base a tre criteri essenziali.
Primo. Riaccorpare gli ambiti territoriali per ottenere almeno un dimezzamento dei 107 attuali (tra province normali, autonome, città metropolitane, consorzi siciliani e quant’altro). Le province storiche infatti vennero delimitate col metodo della raggiungibilità del capoluogo in una giornata a cavallo. Peggio quelle ritagliate di recente con l’assillo del separatismo locale, generando mostriciattoli tipo Monza e Brianza senza territorio, Fermo senza abitanti e Andria-Barletta-Trani senza capoluogo perché ne ha tre!
In Lombardia ad esempio sarebbe abbastanza facile riconoscere sei o sette nuovi ambiti per parziale aggregazione: Como/Lecco/Varese; Brescia; Bergamo; Cremona/Mantova; Pavia/Lodi; forse Sondrio; più l’area metropolitana milanese comprendente l’intera Brianza ed il Bustocco/Gallaratese.
Altra cosa l’articolazione dell’amministrazione periferica dello Stato e para-stato, da adattare con maggiore flessibilità rispetto alla rigida ripartizione “provinciale” dei diversi uffici ed istituti, nonché ordini professionali, enti strumentali, associativi e altro.
Secondo. Redistribuire le funzioni riaffidando tutti i compiti gestionali, comprese scuole secondarie superiori e strade provinciali, ai Comuni che sono già attrezzati per le materne, elementari e secondarie inferiori nonché per le strade comunali, risparmiando così inutili doppioni tecnico-burocratici.
Attribuire invece limitate ma cogenti funzioni strategiche per il governo di territorio, mobilità e ambiente, coordinando e sovraintendendo l’anarchia campanilistica degli oltre ottomila comuni per lo più piccoli e medi. I quali ultimi, con pochi elettori ma con vasti e/o pregiati territori sotto il profilo della tutela del paesaggi e della sicurezza idrogeologica cadono spesso vittime di amministratori improvvisati e liste civiche irresponsabili perché anonime e volatili.
Terzo. Tornare all’elezione diretta per garantire autorevolezza politica e legittimità decisionale, però riducendo al minimo le “poltrone” (es. giunte di solo tre assessori per i tre ruoli sopra citati) ed apparati ridotti per competenze essenzialmente di programmazione e supervisione. Per altro la legge elettorale abolita risultava del tutto valida, simile a quella dei comuni che assicura rappresentanza e stabilità, ma con i collegi uninominali invece delle preferenze.
Ultimo capitolo le città metropolitane, da ridurre dalle quattordici fittizie attuali alle tre o quattro effettive (Roma, Milano, Napoli e forse Torino) da disciplinare con appropriate leggi specifiche.
Se infine i criteri qui sommariamente delineati (con un corollario importante: l’incompatibilità con la spinta alle autonomie regionali differenziate!) fossero ritenuti utili per una base di discussione non mancherebbero temi e argomenti di approfondimento, per altro da oltre un decennio più volte esposti e proposti su ArcipelagoMilano.
Valentino Ballabio
(*) Intervista al Corsera – Corriere di Bologna, 30 aprile 2019
Un commento