3 luglio 2018

musica – IL FIDELIO DI MYUNG-WHUN CHUNG


musica_25Una strana opera, il Fidelio di Beethoven, un’opera che non ha mai suscitato né grande entusiasmo fra i musicofili né grande successo di pubblico. Neppure ai tempi di Beethoven, che dovette scriverla e riscriverla molte volte (fra la prima del 1805, accolta freddamente, e l’ultima del 1814 che finalmente andò bene), cambiarle il titolo (all’inizio fu “Léonore, ou l’amour conjugal” come nel dramma di Jean-Nicolas Bouilly da cui è tratto il libretto), e predisporne ben tre diverse Ouvertures (chiamate, come è noto, Leonora 1, 2 e 3). Né si può dire che l’autore non fosse consapevole di questi problemi se ha scritto “…di tutte le mie creature, il Fidelio è quella la cui nascita mi è costata i più aspri dolori, quella che mi ha procurato i maggiori dispiaceri…”. Fidelio è peraltro l’unica opera lirica scritta da Beethoven che in essa ha concentrato tutti gli sforzi per individuare una “via tedesca” al teatro dell’opera, con lo stesso spirito che aveva animato Mozart e Gluck pochi anni prima e che animerà Wagner negli anni successivi; una via impervia se si pensa che la scena era allora totalmente dominata da Paisiello e Cherubini per i quali i viennesi impazzivano, che era appena scomparso Cimarosa la cui fama era ancora grande, e che subito dopo sarebbe stata dominata da Rossini e poi, oserei dire definitivamente, da Verdi.

Altro sostanziale motivo di difficoltà per Beethoven era la situazione di grande incertezza della politica europea, ed in particolar modo dell’Austria messa in ginocchio dalle vittorie napoleoniche; è nota la posizione politica di Beethoven che ebbe inizialmente una enorme ammirazione per l’Imperatore e successivamente – ma assai prima della sconfitta di Russia (1812) e delle battaglie perse a Lipsia (1813) e a Waterloo (1815) – ne ebbe una drammatica delusione. In quei difficili anni Vienna era stata abbandonata dall’alta borghesia, quella che amava la musica nuova, e dunque il pubblico dei teatri non era più quello colto ed attratto dalla modernità ma piuttosto il pubblico da opéra-comique, di ispirazione parigina.

Non basta, perché anche il soggetto dell’opera, scelto dopo molte incertezze (l’innamorata Eleonora, travestita da uomo, che diventa Fidelio per farsi assumere nel carcere in cui langue il marito-eroe Florestano nel disperato tentativo di salvargli la vita), se da un lato intrigava l’idealismo di Beethoven, con la glorificazione di quell’amore coniugale cui lui aspirò tutta la vita senza mai riuscire a raggiungerlo, dall’altra lo metteva in difficoltà nei confronti dell’establishment asburgico perché rappresentava la rivolta popolare contro lo strapotere del governo (prudentemente collocato, però, in Spagna!).

Tutto ciò premesso, con grande intelligenza la Scala ha riproposto in questi giorni lo stesso Fidelio con il quale inaugurò la stagione nel dicembre del 2014: le stesse belle scene di Chloe Obolensky e la stessa meravigliosa regìa dell’inglese Deborah Warner, diretto però da Myung-Whun Chung anziché da Daniel Barenboim che proprio quel 7 dicembre dette un po’ l’addio al nostro teatro.

In quell’occasione ci esprimemmo molto positivamente sia della direzione di Barenboim – sostenendo che … “con questo Fidelio riscatta lo scarso impegno dedicato al Teatro nel suo settennato, sfodera le armi migliori, sfoggia una accurata concertazione con un ottimo cast di cantanti…” – sia della regìa della Warner osservando solo che “…da perfetta inglese rappresenta l’amore coniugale di una castità inverosimilmente monacale, con i due sposi che – finalmente ritrovatisi in condizioni di fortissima emotività – si dicono parole piene di passione (“O namenlose Freude! Mein Mann an meiner Brust! An Leonorens Brust!” Oh gioia indicibile! Il mio sposo al mio petto! Al petto di Leonora!) senza minimamente avvicinarsi né tantomeno abbracciarsi, restando a cinque rispettosi metri di distanza l’uno dall’altra. Ah … gli inglesi!”.

Mentre confermo l’ottimo giudizio sulla regìa ancorché “molto inglese” della Warner (anzi, direi migliorata rispetto a quattro anni fa, sia nei movimenti di massa che nell’uso delle luci, curate da Jean Kalman), osservo che la direzione di Myung-Whun Chung non ha fatto minimamente rimpiangere quella di Barenboim ed ha superato ogni aspettativa, da tutti i punti di vista: il suono innanzitutto, perfettamente beethoveniano, la morbidezza e la dolcezza delle parti sentimentali e la controllata durezza di quelle politiche e sociali, i pesi delle singole voci e il loro rapporto con il coro, il non essere mai andato sopra le righe, ma neppure sotto, contenendo tutta l’opera in una atmosfera compatta e coerente. La magìa di Chung si è concretizzata nella prestazione dell’orchestra che ha offerto una esecuzione superba e ci ha fatto dimenticare i momenti meno gloriosi degli scorsi anni. Chung ha diretto tutta l’opera a memoria, con assoluta sicurezza, precisissimo negli attacchi alla fossa e al palcoscenico, con un perfetto controllo dei volumi e degli spazi sonori.

Grande successo per le voci dei due maggiori protagonisti – il soprano americano Jacquelyn Wagner nei panni di Leonora/Fidelio e il basso danese Stephen Milling in quelli di Rocco capocarceriere – ed ancora più grande per il direttore che alla fine è stato accolto da un vero e proprio boato. Non era facilmente immaginabile che Fidelio ottenesse le stesse ovazioni solitamente riservate alle grandi opere italiane. E Chung ne è sembrato proprio commosso.

Rubrica a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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