27 marzo 2018

musica – RADU LUPU


Ogni volta che arriva Radu Lupu a Milano si crea un’aspettativa e una forte tensione emotiva. Con grande anticipo comincia la caccia ai biglietti, ci si agita più del solito per essere certi di non perderselo, le sale si riempiono fino all’inverosimile. Finalmente arriva il grande momento e lui compare – con quell’aria leggermente sofferente, come se si apprestasse a compiere un rito sacrificale, preoccupato di tenere lontani da sé i noiosi fastidi alle mani e alla schiena – creando subito, con il pubblico, una simbiosi fatta non di sorrisi e ammiccamenti ma piuttosto da una pudica richiesta di comprensione e di intimità. E il pubblico lo ricambia con palpabile e sincera affettuosità, quasi con la venerazione che nasce dalla consapevolezza di trovarsi di fronte all’ultimo grande Maestro della passata generazione, quella dei grandi e mitici musicisti che nella seconda metà del secolo scorso ci hanno fatto innamorare del pianoforte.

Assomiglia fisicamente a Brahms, chissà se lo fa apposta (Brahms è anche uno dei suoi autori prediletti, insieme a Schumann e Schubert, Mozart e Beethoven) o se è così naturalmente; la sua vera cifra, però, è quella del lupo solitario (nomen omen…) che comunica con il pubblico solo evocando le note come l’officiante di un rito sacro. Taciturno e avaro di notizie sulla sua vita, di lui si sa solo che nasce da una famiglia borghese (il padre è avvocato, la madre linguista), che ha passato l’infanzia in quella Galati della pianura rumena là dove il Danubio comincia a dividersi in mille rami per formare l’immenso delta, che ha trascorso la giovinezza a Mosca fra conservatorio ed insegnanti privati, e che ora vive a Londra ma per modo di dire, essendo perennemente in giro per il mondo, fra teatri e sale da concerti. Valerio Cappelli traccia di lui questo quadro: “…quando sale sul palco sembra quasi che voglia essere dimenticato, è come se le sue mani potessero sfuggirgli e vivere per conto proprio, creando in un tempo circoscritto, un’isola a parte. Un uomo che rimane un mistero, comunica con la mente e con le mani, non con le parole. La barba fluente, i capelli arruffati che scendono sulle guance come due tende, gli occhi di carbone, un orso anche d’aspetto, uno strano artista selvatico che possiede un suono intimista e delicato.

Lupu non suona ma contempla la musica, medita su ogni nota, non si lascia mai andare; sembra che il suo massimo impegno sia quello di controllare le emozioni. Il suo suono è rarefatto, astrazione pura, incorporea spiritualità; spreme l’essenza della musica e procede per eliminazione di tutto il superfluo, a cominciare dai fortissimi e dai pianissimi; non usa i “rubati” per rubare la simpatia a chi ascolta, è sobrio e parsimonioso, mai “sopra” o “sotto” le righe ma sempre “dentro” le righe. Al contrario di ciò che suggerisce la sua massiccia figura, sfiora i tasti con la delicatezza e il garbo di chi vuol far amare e capire, non conquistare o travolgere.

La settimana scorsa al Conservatorio, ospite per l’ennesima volta della Società del Quartetto (la prima risale a quarantacinque anni fa, quando di anni ne aveva appena 28!), ha dedicato l’intero concerto a Schubert eseguendone i sei Momenti Musicali D.780 e le due Sonate D.784 e D.959, rispettivamente in la minore e in la maggiore, ed aggiungendo alla fine, come bis, il terzo Improvviso dell’opera 90 (D.899) in sol bemolle maggiore; credo che difficilmente si sia avuta l’opportunità di penetrare nell’animo di Schubert con tanta chiarezza e lucidità.

All’inizio, con i Momenti Musicali (il titolo è dell’editore, non dell’autore), Lupu sembra avviarsi a fatica: nel primo, il Moderato in do maggiore, è come se si sentisse a disagio, sembra freddo, forse c’è qualcosa nel pianoforte che non lo convince (nell’intervallo lo farà riaccordare); subito dopo si riprende e nel meraviglioso Andantino diventa sicuro di sé ed amabilissimo. Durante l’Allegro moderato, però, un inspiegabile forte botto, proveniente dalle prime file di poltrone, fa sobbalzare pubblico e pianista e Lupu tenta di ignorarlo ma è visibilmente innervosito, continua ma fa fatica a concentrarsi. Si aiuta un poco canticchiando (è quasi un miagolio, lo fa anche Pollini, i pianisti spesso non se ne rendono conto ma se ne accorge il pubblico che ne viene affascinato ed infastidito insieme) poi, con l’incantevole Moderato in do diesis minore, si riprende ancora una volta, perfettamente, ed arriva a concludere in grande bellezza con l’Allegro vivace e l’Allegretto finali.

La Sonata in la minore – scritta solo un anno dopo la conclusione del ciclo beethoveniano delle trentadue Sonate per pianoforte e curiosamente dedicata a Felix Mendelssohn Bartholdy allora appena quattordicenne (!) – non credo sia uno dei capolavori di Schubert ma Radu Lupu ha saputo arricchirla di senso più di quanto se ne possa trovare nella partitura; il sentimento incombente della morte (Schubert aveva solo ventisei anni ma aveva appena saputo della malattia – allora incurabile – che in cinque anni lo avrebbe ucciso) viene trasformato da Lupu in nostalgia del passato e della stessa vita.

Tutt’altro stato d’animo ha dominato la seconda parte del concerto, dedicata interamente alla portentosa Sonata in la maggiore, penultima delle sue ventitré, scritta poche settimane prima di morire; di essa – nel recentissimo volume “Le ultime sonate di Schubert” – Luca Ciammarughi dice che è “… di luminosa grandezza, un incedere ieratico che richiama, nelle soluzioni cadenzanti, le grandi pagine corali sacre di Schubert…”. Qui Lupu, nonostante qualche difficoltà alle dita – peraltro scarsamente percettibili alla maggior parte del pubblico – ha dato il meglio di sé; era tale la sua immedesimazione con la musica che pareva fosse Schubert stesso a suonare (per modo di dire, poiché pare non fosse affatto un grande pianista!), ogni distanza fra autore e interprete era annullata. Ancora una volta, con l’Andantino in fa diesis minore del secondo movimento tanto apparentemente sereno quanto in realtà drammatico, la Sonata si è rivelata una profonda meditazione sulla vita e sulla morte. E la conclusione, con quel giocoso Improvviso, ha decretato la vittoria della prima sulla seconda.

 

Paolo Viola

 

Questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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