20 marzo 2018

musica – L’ORFEO ALLA SCALA


Non Orfeo ma Orphée perché, per la prima volta dopo più di due secoli, la Scala ha messo in scena l’Orfeo ed Euridice di Gluck nella versione che lui stesso ha adattato per il pubblico parigino dell’Académie Royale nel 1774, dodici anni dopo la prima al Burgtheater di Vienna. A Milano, nonostante la sua folgorante bellezza, quest’opera è stata sempre negletta, anche nella versione originale in lingua italiana, ed ha avuto ben pochi allestimenti; grazie a Toscanini (che la diresse nel 1907 e poi ancora nel ‘24, ‘25, e ‘26), a Furtwängler (1951), a von Matai (1958), a Sonzogno (1962), a Muti (1989) e a pochi altri, è apparsa in cartellone in una dozzina di stagioni e solo a partire dal 1891 quando, centotrent’anni dopo la prima viennese, debuttò nel nostro teatro.

musica_11L’opera di Gluck ha qualcosa di magico. Innanzitutto per la musica: paradisiaca, avvolgente e struggente come poche altre, una di quelle opere che dopo averla ascoltata risuona nelle orecchie per giornate intere. Poi per il testo, pieno di poesia e di riferimenti letterari ed intriso di cultura mediterranea e mitteleuropea insieme. Infine per la sua storia, per come lega intimamente fra loro Italia, Austria, Germania e Francia, e ne fa un’opera profondamente europea ad ennesima dimostrazione che la musica non accetta confini.

A parte l’antecedente biblico di Loth (che nella sua fuga da Sodoma non può voltarsi indietro pena la trasformazione in statua di sale) il mito di Orfeo ha radici in Grecia ma viene raccontato molto a Roma – sia da Ovidio nelle Metamorfosi che da Virgilio nelle Georgiche – fino a diventare nei secoli successivi il simbolo più alto della forza che poesia e canto possono esercitare sugli uomini: poesia e canto a loro volta generano l’amore e quello di Orfeo per Euridice ne è la quintessenza. Nella vicenda dell’opera eros e thanatos si aggrovigliano inestricabilmente; da una parte il loro amore li uccide, dall’altra il dio Amore li salva.

L’opera – che l’autore stesso chiama “azione teatrale per musica” per tenersi distante dalla tradizionale opera seria della scuola napoletana – nasce per iniziativa del conte Giacomo Durazzo, ambasciatore di Genova a Vienna e direttore di teatri della capitale asburgica, che presenta al noto compositore bavarese Christoph Willibald Gluck l’assai meno noto poeta e librettista livornese Ranieri de’ Calzabigi e li spinge a lavorare insieme per dare una svolta allo stanco impianto dell’opera barocca. Siamo intorno al 1760 (da poco era morto Bach, Mozart era appena nato), Gluck, come Calzabigi, si avvicina ai cinquant’anni, aveva studiato, vissuto e lavorato a Milano, a Napoli, a Praga, a Londra, aveva conosciuto i più grandi musicisti europei, e l’incontro con il Calzabigi è determinante, per lui e per la storia della musica. Insieme, infatti, decidono di riformare in profondità la struttura dell’opera seria (mentre l’opera buffa continuerà il percorso che la porterà fino a Rossini) liberandola dalle rigide regole barocche; da loro prenderà le mosse per diventare in pochi decenni, grazie anche e soprattutto all’immenso lavoro di Mozart, il grande melodramma romantico. Si chiamerà la “riforma gluckiana”.

Questa edizione dell’Orfeo, prodotta dalla Royal Opera House del Covent Garden di Londra, si è appena conclusa con la serata sold out di sabato scorso fra lunghe ovazioni da stadio e rimarrà nella memoria di chiunque l’abbia vista, non solo per la perfetta direzione di Michele Mariotti e per le splendide voci di Juan Diego Flrez (Orphée), di Christiane Karg (Euridice) e di Fatma Said (l’Amour), ma ancor più per la ispirata regìa di Hofesh Shechter e John Fulljames e cioè proprio per quella regìa e quelle scene che hanno fatto storcere il naso a tanti ed incantato tanti altri, me compreso. Una regìa tanto complessa ed inusuale che per descriverla non basta lo spazio di questa rubrica.

Due settimane fa me la prendevo con i registi di opere liriche che … “ignorando le indicazioni degli autori, si inventano situazioni totalmente diverse da quelle raccontate nel libretto, quando non addirittura opposte e rovesciate”. Shechter e Fulljames vanno invece nella direzione opposta. Rovesciando la tradizionale scenografia settecentesca, e con un approccio sostanzialmente minimalista ed assolutamente moderno, mettono al centro della scena non i luoghi in cui la vicenda si svolge ma la musica e le emozioni dei personaggi che la vivono: la musica, facendo diventare protagonista l’orchestra che, sistemata su un grande praticabile, si inabissa e s’innalza dal piano del palcoscenico sicché pare che la musica accompagni fisicamente Orfeo che, alla ricerca dell’amata, scende agli Inferi o sale ai Campi Elisi; le emozioni, raccontandole attraverso i corpi dei ballerini (l’ottima Hofesh Shechter Company), le luci e la nudità della scena arredata solo da pochi oggetti come una sedia e il mini-monumento funebre di Euridice sul quale piangerà l’amante disperato e che si incendia – ottimo coup-de-theatre – due volte per la doppia morte dell’eroina. (Una regìa che ricordava la famosa edizione del Don Giovanni di Mozart, messo in scena vent’anni fa da Peter Brook per il festival di Aix-en-Provence e ripresa poco dopo dal nostro Piccolo Teatro, con la direzione dell’allora giovanissimo Daniel Harding: la scena era composta semplicemente da un ring “da pugilato” con due sedie ed un palo, nient’altro).

Così è successo che cantanti, coro, ballerini ed orchestrali, tutti insieme – e in qualche momento addirittura mescolandosi gli uni agli altri – abbiano creato una potentissima sinergia indirizzata a valorizzare il senso vero e profondo dell’opera senza che null’altro potesse distrarre gli spettatori. Teatro totale con una potenza innovativa che sembrava l’eco della rivoluzione operata da Gluck e dal Calzabigi; uno spettacolo da togliere il fiato e da scatenare un entusiasmo potente da parte del pubblico.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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